Busto di G.Garibaldi - Ettore Rosa - Porta San Pancrazio - Roma

DIALOGO TRA NONNO E NIPOTE SUL RISORGIMENTO

di Enrico Angelani

Si pubblica nell’inserto speciale di Camicia Rossa questo inedito dialogo tra un nonno e suo nipote sul tema del Risorgimento e di Garibaldi, scritto dal socio reatino Enrico Angelani e risultato tra i premiati della IV edizione del concorso nazionale “Il Risorgimento italiano nella memoria”, promosso da Endas regionale Emilia Romagna. La cerimonia di premiazione si è svolta a Ravenna, nella sede della Casa Matha, il 7 ottobre scorso alla presenza della giuria composta da: Otello Sangiorgi, Sauro Mattarelli, Alessandra Casanova.
Ringraziamo Enrico Angelani per averci proposto e autorizzato la pubblicazione di questo testo inedito nella nostra rivista associativa.

Nipote: “Nonno mi dispiace non poter accettare il tuo invito a visitare insieme Caprera il prossimo 2 giugno, ma sono troppo impegnato con l’esame di maturità. Ma dimmi, perché ci tieni così tanto?”
Nonno: “Perché ritengo che ogni italiano dovrebbe visitare l’isola di Caprera, località dove Giuseppe Garibaldi è vissuto a lungo e dove è morto ed è stato sepolto. Qui è sorta un’area museale, nota come “Compendio garibaldino”, di proprietà dello Stato italiano, che include la “Casa Bianca”, dimora principale e più a lungo utilizzata da Garibaldi, conservata come al tempo in cui era in vita. Poi, nel vasto cortile centrale, vi è la suggestiva sua tomba semplice e ruvida connotata da un grande masso di granito. Ci tengo ad onorare così tanto Garibaldi perché ritengo che, con la forza dei suoi ideali e l’instancabile sua azione di condottiero, ha reso reale il sogno da troppo tempo coltivato da noi italiani (ti ricordi i versi di Dante…”ahi serva Italia, di dolore ostello!”) di vedere e vivere in un’Italia unita e liberata da dominazioni straniere anche attraverso il coinvolgimento e l’apporto di volontari, appartenenti a tutte le classi sociali: dai Mille di Quarto agli oltre Diecimila di Mentana”

Nipote: Nonno, ricordo bene che il 2 giugno di 4 anni fa sei già andato a Caprera, con nonna Lia . Ma perché la data del 2 giugno?
Nonno: “Perché il 2 giugno è il giorno del 1882 nel quale morì Garibaldi e per quel giorno a Caprera sono fissate le cerimonie per ricordarlo. Caso vuole che il 2 giugno coincida con la ricorrenza della festa della Repubblica italiana, cioè quel 2 giugno del 1946, quando gli italiani con un referendum popolare rifiutarono, dopo 85 anni di Monarchia di Casa Savoia, di essere retti da un re e vollero che il Capo dello Stato fosse scelto fra tutti i cittadini italiani per essere, poi, eletto con libera votazione del Parlamento. Come sai Garibaldi era repubblicano ed ebbe il merito di essere tra i fondatori della Repubblica romana del 1849. Purtroppo essa venne abbattuta violentemente da altri “repubblicani” stranieri, venuti dalla Francia ma, fortunatamente, nei suoi soli cinque mesi di vita, la sua Assemblea parlamentare, eletta con suffragio universale, sotto la guida dei triunviri (Mazzini, Saffi e Armellini), riuscì a varare una carta costituzionale talmente all’avanguardia che buona parte dei canoni e dei valori in essa espressi furono ripresi dalla Costituzione della Repubblica italiana, nata 100 anni dopo, cioè nel 1948.”

Nipote: Nonno, a proposito di Repubblica, ma perché tuo padre porta come nome di battesimo Mazzini, cioè il cognome del famoso esponente del pensiero repubblicano?
Nonno: “Perché, nello spirito dei nostri avi dell’epoca risorgimentale, mettere ai propri figli per nome i cognomi di patrioti illustri era un gesto di gratitudine e di connotazione pregevole di appartenenza. Garibaldi stesso chiamò due dei suoi figli con i cognomi di martiri del Risorgimento: Menotti e Ricciotti. Così mio nonno Paolo fu vivamente colpito, sebbene bambino, dalla figura di Garibaldi, che vide percorrere con tutto il suo seguito le vie di Monterotondo, divenuto il comando generale della sua spedizione per annettere lo Stato pontificio all’Italia e fare di Roma la capitale del nuovo Regno. Nonno Paolo parlava spesso di questa sua esperienza da bambino, impressionato anche dalle belle canzoni patriotiche eseguite dalla banda nazionale garibaldina di Poggio Mirteto, appena nata in quel 1867 e che è tuttora in vita. Quando, trent’anni dopo, nacque il suo primogenito scelse di chiamarlo Mazzini perché, ormai raggiunta l’unità d’Italia, rimaneva viva per gli uomini progressisti la lotta politica rivolta ad esaltare la nascita della Repubblica. Ci fu anche chi scelse il nome Garibaldi, un mio collega siciliano aveva il padre con tale nome. Voglio sottolinearti che su Mazzini e Garibaldi, considerati i padri della Patria, mi ha sempre profondamente colpito il fatto che si portassero addosso l’ignominia di una condanna a morte, comminata dai Savoia al tempo della repressione dei moti rivoluzionari repubblicani proclamati dalla “Giovine Italia”. Pensa che Giuseppe Mazzini morì a Pisa in clandestinità sotto il falso nome di dottor Brown.”

Nipote: Ricordo di averti sentito parlare della battaglia di Monterotondo del 1867, quando hai presentato alla biblioteca comunale “Paolo Angelani” il tuo saggio su Raffaello Giovagnoli, garibaldino e letterato di Monterotondo. Voi lo conoscevate in famiglia?
Nonno: “Hai ragione, ricordi bene, Raffaello Giovagnoli fu un personaggio di grande levatura politica e letteraria che diede molto lustro a Monterotondo. Pensa che tutta la sua famiglia, dal padre, Francesco, esponente di spicco della Repubblica romana del 1849, ai suoi fratelli Ettore, Mario e Fabio e al cugino Alessandro, furono definiti dallo stesso Garibaldi “I Cairoli del Lazio” per la loro ardimentosa partecipazione alle battaglie come volontari garibaldini. Mio nonno Paolo, che li conosceva bene, parlava spesso di loro in famiglia e amava leggere a noi nipoti i tanti romanzi di Raffaello, non solo “Il Marchese del Grillo” e “Gaetanino”, più adatti a noi ragazzini, ma anche quell’affascinante romanzo storico dal titolo “Spartaco”. Ricordo ancora mio nonno sfoggiare con soddisfazione l’edizione illustrata, in carta satinata. Questo libro, edito nel 1874, è ancora oggi presente nelle biblioteche di famiglia, specialmente quelle russe e cinesi, come di recente attestato da una trasmissione di Rai Storia, condotta da Paolo Mieli. Un bel busto marmoreo di Raffaello Giovagnoli si trova accanto al monumento Cippo-Ossario garibaldino di Monterotondo, dove spiccano quattro lapidi commemorative, una delle quali dettata dallo stesso Garibaldi. Ero pieno di ammirazione quando mio padre Mazzini, quale Vice-sindaco di Monterotondo, nella ricorrenza del 3 novembre della battaglia di Mentana, vi saliva per tenervi il discorso commemorativo.”

Nipote: Ricordo bene quel giorno, in cui noi quattro nipoti ci siamo fatti la foto di gruppo, insieme al sindaco Alessandri, con la sua fascia tricolore, sotto la Porta Garibaldi di Monterotondo ricolma di lapidi. Non ricordo perché….
Nonno: “Perché stavamo partecipando alla cerimonia di commemorazione del 150.mo anniversario della battaglia garibaldina di Monterotondo del 25 e 26 ottobre 1867 e proprio questa Porta, la più importante della cinta muraria di Monterotondo, è divenuta un simbolo dello scontro tra i “garibaldini” e le truppe “papaline”, per lo più francesi. Essa dovette essere bruciata per poter espugnare la città. Ciò costò a Garibaldi la perdita di centinaia di volontari. Voglio su questo dirti che i tanti morti garibaldini, rispetto ai papalini, non sono dovuti a una colpa o trascuratezza di Garibaldi. Sono stato da sempre convinto che Garibaldi, nell’affrontare i confronti militari, abbia tenuto nella massima considerazione la salvezza dei suoi volontari, evitando di esporli a inutili sacrifici o di spingerli a missioni impossibili. La spedizione del 1867, nota come “Campagna dell’Agro romano per la liberazione di Roma”, fu molto sanguinosa, non per temerarietà di Garibaldi, ma perché venne a mancare, inaspettatamente e incomprensibilmente l’insurrezione del popolo di Roma, che ben lo aveva acclamato proprio Generale a difesa di quella Repubblica del 1849. Quando si rese conto del venir meno di questo apporto, essenziale per raggiungere l’obiettivo, dispose una ritirata verso l’Abruzzo, passando per Tivoli ma, per una serie di circostanze sfavorevoli, le truppe garibaldine caddero nell’imboscata fatta dalle truppe pontificie, affiancate da quelle francesi nei pressi di Mentana. Tra le molte lapidi poste sulla Porta una è stata fatta collocare nel 1961 da mio fratello Paolo, allora giovane sindaco di Monterotondo, che fu invitato a Torino alle manifestazioni per il centenario dell’Unità d’Italia. Ma la più bella lapide che ti voglio segnalare è quella dettata dal famoso filosofo e politico Giovanni Bovio che così recita: “QUESTA PORTA / DIFESA DA’ ZUAVI / ARSA DA’ GARIBALDINI / NEL XXV OTTOBRE MDCCCLXVII / INDICHIAMO AI PASSANTI / DOPO XXXIII ANNI / A MONITO / CHE DOGMI MURA ED ARMI / MAL SI ERGONO TERMINI / AL SECOLO.” Testo bellissimo, che porto a memoria.”

Nipote: Ti ho sentito parlare di una storia singolare legata a una di queste lapidi che ha riguardato qualcuno della nostra famiglia.
Nonno: “Vedo che ti ricordi ciò che vi racconto nei nostri incontri familiari, mi fa piacere. La vicenda ha riguardato il fratello di mia nonna Adele, madre di Mazzini, che si chiamava Adolfo. Era un uomo dolce, ma di grande temperamento. Rimanevo sempre affascinato dai suoi racconti sul vissuto militare nella campagna d’Africa, in luoghi così carichi di mistero, dove le notti si riempivano di ululati delle iene, intorno ai loro accampamenti e, poi, il raccapriccio dei morti per la micidiale sconfitta italiana ad Adua del 1896. Esperienza che lo portava a esprimere il suo biasimo, richiamandosi alle parole di condanna di un garibaldino illustre, Felice Cavallotti, che partecipò alla battaglia di Monterotondo del 1867. Questi contestava al garibaldino Crispi, capo del Governo, di aver intrapreso l’avventura coloniale in stridente contrasto con gli ideali risorgimentali, rivolti a spingere i popoli ad affrancarsi da despoti stranieri, che ne occupavano il territorio, com’era stato per l’Italia. Zio Adolfo ha lasciato un bel ricordo tra i monterotondesi, specialmente tra contadini e operai, promuovendo, nei primi del ‘900, le cooperative per la coltivazione dei vigneti e per la costruzione delle case popolari. Di sentimento anticlericale, allora diffusamente presente, era riuscito a ottenere che la Piazza del Duomo diventasse Piazza Giordano Bruno, il filosofo che fu condannato dalla Chiesa per le sue idee e messo al rogo a Piazza Campo de’ Fiori. Con l’avvento della dittatura fascista, Zio Adolfo visse una vita da perseguitato politico con l’accusa di affiggere manifesti clandestini. Ed eccoci allora di nuovo alla Porta Garibaldi, dove i fascisti, per lasciare testimonianza che a Monterotondo si era formata una delle colonne armate della Marcia su Roma (cioè il colpo di Stato con il quale Mussolini andò al Governo nel 1922, instaurando una dittatura che durò oltre vent’anni), vollero porre una loro lapide che accomunava lo spirito patriottico dei due corpi di volontari, quello delle camicie rosse garibaldine del 1867 a quello delle camicie nere fasciste del 1922, che così sentenziava: “additando ai futuri il suo duplice orgoglio, per un’Italia che rinnova la grandezza di Roma”. La reazione di Zio Adolfo fu quella di andare ad affiggere, nottetempo, sulla lapide un suo manifesto che così recitava: “QUESTA PORTA DIFESA DAGLI ZUAVI/ARSA DA GARIBALDINI/DOVE SOSTÒ NELL’INERZIA CODARDA/LA VECCHIA GIOVINEZZA DELLE CAMICE NERE/ RESTAURATRICI DELLA PIÙ INFAME TIRANNIDE/ADDITA AI FUTURI/ L’IGNOMINIOSA ANTITESI TRA I DUE FATTI/CHE UNA PROFANATRICE MENZOGNA/ VOLLE UNIFICARE”. Scoperto, fu imprigionato e schedato. Gli fu vietato l’espatrio, malgrado avesse sposata zia Lina, che era francese. Nell’Archivio Centrale di Stato all’EUR ho trovato un fascicolo corposo, dove si riscontra che non compì mai atti violenti, ma fu ugualmente ritenuto capace di atti “inconsulti”. Sulla sua scheda si legge che si rese colpevole di non essersi presentato al lavoro il Primo Maggio 1929, Festa dei lavoratori istituita in Italia dal 1890 e abolita dal Fascismo. Mi piace ricordarti che di lui conservo una preziosa raccolta di poesie di satira politica antifascista, gustosa e originale. Sarà bello che un giorno voi giovani, spinti dalla curiosità, andiate a conoscere più a fondo la storia dei nostri avi per farvi un’idea di quanto difficile e faticoso fosse perseguire gli ideali del nostro Risorgimento per poter realizzare un’Italia, sì unita, ma anche emancipata sui valori della libertà, della coscienza civica, della legalità, dell’equità sociale, del pacifismo e della crescita culturale, contrastando, poi, anche le derive autoritarie che minacciavano tale processo democratico.

Nipote: Nonno, trovo molto stimolante quanto mi hai detto e mi fa sentire anche orgoglioso dei nostri avi e dei loro ideali. Ma mi chiedo, se di quel bagaglio ideale del Risorgimento si siano raggiunti tutti i traguardi posti.
Nonno: “Vorrei dirti di si, ma purtroppo ritengo che ci manchi qualcosa di molto importante: la convivenza pacifica tra i popoli. Non siamo riusciti ad attuare una strategia di salvaguardia della pace e a trovare un interlocutore autorevole che attraverso le “armi” della diplomazia appiani i contrasti per far tornare l’armonia. Devi considerare che già nel 1849 i nostri nonni del Risorgimento erano riusciti a fissare nei Principi fondamentali della Costituzione della Repubblica romana una regola indiscutibile:”La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità….”. Cosa ne è stata di questa regola aurea nel nostro contesto nazionale e in quello europeo? Dimenticata, anzi tradita. Abbiamo, come italiani, intrapreso guerre contro altri popoli, non per difenderci ma per espanderci. Non c’era più neanche l’alibi di andare a “civilizzare”, quando abbiamo invaso l’Albania, la Francia e la Russia. Alleandoci con i tedeschi e i giapponesi volevamo conquistare il mondo intero. Invece abbiamo concorso a scatenare la Seconda Guerra Mondiale che, nella classifica del “Libro nero dell’Umanità”, scritto da White, occupa il primo posto in termini di morti e devastazioni di tutti i tempi. Questo avvenne quando ancora fresche erano le ferite della Grande Guerra, connotata dalla più umiliante e atroce delle forme di conflitto, quella della guerra di trincea. Tuo nonno Mazzini visse questa esperienza per 4 lunghi anni. Ricordi che siamo andati in escursione sul Monte Ortigara? Il monte conserva ancora vive le testimonianze della sanguinosa battaglia del 1917, con le gallerie e le trincee ed è ancora possibile, nelle cavità, trovare residuati bellici. In quella battaglia dell’Ortigara, in cui caddero oltre 20.000 soldati italiani, per lo più alpini, nonno Mazzini si salvò, ma vide morirgli accanto il suo amico e omonimo Mazzini Mollica, il cui nome è riportato tra quello dei caduti nella stele del Parco della Rimembranza di Monterotondo.”

Nipote: Anche noi giovani manifestiamo spesso per la pace, soprattutto in questo periodo in cui la guerra è tornata in modo così prepotente tra di noi. Pensi che ce la faremo a far prevalere questi validi ideali che sembra vengano considerati ormai vecchi e superati?
Nonno: “Proprio in questo periodo di mio sconcerto per la guerra in corso, che è tornata a insanguinare il suolo europeo, mi sono ricordato di aver letto su “Manlio”, l’ultimo romanzo scritto da Garibaldi, alcuni passi sul giudizio che lui dava della guerra. Te ne leggo qualche brano:
“…preferirei trovarmi in qualunque delle più dispiacevoli circostanze della vita, piuttosto che in una città presa d’assalto e fra i motivi di aborrimento della guerra questo è uno dei principali. L’uomo diventa bestia in simile circostanza, su d’un campo egli impiega tutta la sua forza, i suoi stratagemmi, tutta la somma di malizia di cui è capace, e che non è poca, per ferire, distruggere, annientare il suo simile, ma l’uomo belva contro belva-uomo, l’uno cade bagnato affogato nel proprio sangue, oppure le sue membra sono frantumate come i ramoscelli dell’arbusto schiacciato dalla valanga alpina, e l’uccisore, superbo millantatore, vanta la sua vittoria, la divulga ai quattro venti, e il sacerdote del Dio delle battaglie la santifica nel tempio con un tedeum. Ma nella città presa d’assalto vi è la canizie incapace di difendersi, la donna, i bambini che colpa non hanno della rabbia umana, delle glorie, delle vittorie, dei macelli. E credete voi che perciò l’uomo-belva s’intenerisca, rispetti gli innocenti. Oibò! È giustamente con questi uomini innocenti che egli fa il gradasso, lo spaccamonti…
Qui mi è forza accennare ad un’idea mia favorita sull’educazione nazionale in Italia. Tutti sanno quanto io sia nemico della guerra e che se ho dovuto farla nella mia vita ciò fu per essere figlio d’un popolo manomesso e calpestato da tiranni nostrani e stranieri; quindi non guerra per propensione o per venale interesse, ma per dignità individuale, nazionale, giacché meglio è morire che vivere da schiavo. Ora in Europa va progredendo l’idea di un arbitrato internazionale. Ma quando sarà attuabile cotesto umanitario concetto? Intanto i potentati si armano fino ai denti e vi saranno probabilmente dei nuovi conflitti tra le nazioni e chi sa per quanto tempo ancora!”
Un Garibaldi sconosciuto ai più, perché sembra inconciliabile con l’essere considerato come il più grande generale italiano degli ultimi tre secoli, come lo ha qualificato lo storico Alessandro Barbero. Occorre considerare che il sentimento di pacifista gli deriva dalla sua convinta adesione alle idee di Henri de Saint-Simon, il fondatore del socialismo francese, che propugnava l’importanza dei valori di fratellanza e solidarietà universale tra i popoli. Il suo convinto pacifismo trova la massima riprova a Ginevra, dove Garibaldi si reca nel settembre del 1867 e diventa protagonista del Congresso Internazionale per la Pace. Viene acclamato all’unanimità Presidente onorario, sebbene quell’assise fosse dominata da delegati di area progressista e di sinistra più consistenti e radicali, quali i rappresentanti dell’Internazionale socialista e del Movimento anarchico di Bakunin. Garibaldi presenta la sua mozione in 8 punti, nei quali enuncia la sua visione pacifista: “Tutte le Nazioni sono sorelle e la guerra tra loro è impossibile… tutte le querelle che sorgeranno tra loro dovranno essere giudicate da un Congresso internazionale… nessun uomo può uccidere un altro uomo se non lo schiavo oppresso dal suo tiranno”..
Pensa, tre canoni fondamentali espressi ben 156 anni fa e che avrebbero potuto costituire in Europa e nel mondo intero il cardine per salvaguardare la pace universale. Lo sanno bene i fautori del Secondo Risorgimento che riprenderanno, 80 anni dopo, quei canoni e li trasfonderanno nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, i due strumenti che avrebbero potuto e dovuto garantire il graduale progresso per tutti gli uomini in un clima di solidarietà e fratellanza. Per le Nazioni che non avessero rispettato le regole pattuite, l’apposito corpo dei Caschi blu, quale unico gendarme dotato di armi, sarebbe intervenuto a farle rispettare. Purtroppo, la scarsa efficienza dell’ONU ha fatto si che da ormai troppo tempo ci imbattiamo in guerre sparse in tutto il mondo. Da ultimo, la guerra russo ucraina ci pone di fronte all’aggravarsi del rischio della sopravvivenza dell’umanità, come ci avvertono da tempo gli scienziati de’ “L’Orologio dell’Apocalisse”. Sono convinto della validità dell’idea lanciata da un giurista e filosofo italiano che ha scritto un bel libro sulla necessità di una “Costituente della Terra”, che prevede un patto di non aggressione tra tutte le nazioni del mondo, secondo precise regole. Sottolinea che non si tratta di un progetto utopico ma di una impellente necessità. L’autore è Luigi Ferrajoli, mi piace pensarlo uno dei nostri, cioè un garibaldino. Mi onoro di aderire ad un’Associazione garibaldina, che mira a mantenere vivi questi patrimoni, organizza studi e convegni e cura il mantenimento dei vari Musei garibaldini (Mentana, Riofreddo e Porta S.Pancrazio…).”
Nipote: Grazie nonno per queste tue parole. So che tu hai fatto la prima Marcia della Pace del 1961. Anche noi giovani ne abbiamo fatte e ne faremo. Mi impegno a mantenere vive le testimonianze scritte e orali che ci hanno lasciato gli avi e che tu hai così bene custodito.

Si pubblica nell’inserto speciale di Camicia Rossa questo inedito dialogo tra un nonno e suo nipote sul tema del Risorgimento e di Garibaldi, scritto dal socio reatino Enrico Angelani e risultato tra i premiati della IV edizione del concorso nazionale “Il Risorgimento italiano nella memoria”, promosso da Endas regionale Emilia Romagna. La cerimonia di premiazione si è svolta a Ravenna, nella sede della Casa Matha, il 7 ottobre scorso alla presenza della giuria composta da: Otello Sangiorgi, Sauro Mattarelli, Alessandra Casanova.
Ringraziamo Enrico Angelani per averci proposto e autorizzato la pubblicazione di questo testo inedito nella nostra rivista associativa.

Nipote: “Nonno mi dispiace non poter accettare il tuo invito a visitare insieme Caprera il prossimo 2 giugno, ma sono troppo impegnato con l’esame di maturità. Ma dimmi, perché ci tieni così tanto?”
Nonno: “Perché ritengo che ogni italiano dovrebbe visitare l’isola di Caprera, località dove Giuseppe Garibaldi è vissuto a lungo e dove è morto ed è stato sepolto. Qui è sorta un’area museale, nota come “Compendio garibaldino”, di proprietà dello Stato italiano, che include la “Casa Bianca”, dimora principale e più a lungo utilizzata da Garibaldi, conservata come al tempo in cui era in vita. Poi, nel vasto cortile centrale, vi è la suggestiva sua tomba semplice e ruvida connotata da un grande masso di granito. Ci tengo ad onorare così tanto Garibaldi perché ritengo che, con la forza dei suoi ideali e l’instancabile sua azione di condottiero, ha reso reale il sogno da troppo tempo coltivato da noi italiani (ti ricordi i versi di Dante…”ahi serva Italia, di dolore ostello!”) di vedere e vivere in un’Italia unita e liberata da dominazioni straniere anche attraverso il coinvolgimento e l’apporto di volontari, appartenenti a tutte le classi sociali: dai Mille di Quarto agli oltre Diecimila di Mentana”

Nipote: Nonno, ricordo bene che il 2 giugno di 4 anni fa sei già andato a Caprera, con nonna Lia . Ma perché la data del 2 giugno?
Nonno: “Perché il 2 giugno è il giorno del 1882 nel quale morì Garibaldi e per quel giorno a Caprera sono fissate le cerimonie per ricordarlo. Caso vuole che il 2 giugno coincida con la ricorrenza della festa della Repubblica italiana, cioè quel 2 giugno del 1946, quando gli italiani con un referendum popolare rifiutarono, dopo 85 anni di Monarchia di Casa Savoia, di essere retti da un re e vollero che il Capo dello Stato fosse scelto fra tutti i cittadini italiani per essere, poi, eletto con libera votazione del Parlamento. Come sai Garibaldi era repubblicano ed ebbe il merito di essere tra i fondatori della Repubblica romana del 1849. Purtroppo essa venne abbattuta violentemente da altri “repubblicani” stranieri, venuti dalla Francia ma, fortunatamente, nei suoi soli cinque mesi di vita, la sua Assemblea parlamentare, eletta con suffragio universale, sotto la guida dei triunviri (Mazzini, Saffi e Armellini), riuscì a varare una carta costituzionale talmente all’avanguardia che buona parte dei canoni e dei valori in essa espressi furono ripresi dalla Costituzione della Repubblica italiana, nata 100 anni dopo, cioè nel 1948.”

Nipote: Nonno, a proposito di Repubblica, ma perché tuo padre porta come nome di battesimo Mazzini, cioè il cognome del famoso esponente del pensiero repubblicano?
Nonno: “Perché, nello spirito dei nostri avi dell’epoca risorgimentale, mettere ai propri figli per nome i cognomi di patrioti illustri era un gesto di gratitudine e di connotazione pregevole di appartenenza. Garibaldi stesso chiamò due dei suoi figli con i cognomi di martiri del Risorgimento: Menotti e Ricciotti. Così mio nonno Paolo fu vivamente colpito, sebbene bambino, dalla figura di Garibaldi, che vide percorrere con tutto il suo seguito le vie di Monterotondo, divenuto il comando generale della sua spedizione per annettere lo Stato pontificio all’Italia e fare di Roma la capitale del nuovo Regno. Nonno Paolo parlava spesso di questa sua esperienza da bambino, impressionato anche dalle belle canzoni patriotiche eseguite dalla banda nazionale garibaldina di Poggio Mirteto, appena nata in quel 1867 e che è tuttora in vita. Quando, trent’anni dopo, nacque il suo primogenito scelse di chiamarlo Mazzini perché, ormai raggiunta l’unità d’Italia, rimaneva viva per gli uomini progressisti la lotta politica rivolta ad esaltare la nascita della Repubblica. Ci fu anche chi scelse il nome Garibaldi, un mio collega siciliano aveva il padre con tale nome. Voglio sottolinearti che su Mazzini e Garibaldi, considerati i padri della Patria, mi ha sempre profondamente colpito il fatto che si portassero addosso l’ignominia di una condanna a morte, comminata dai Savoia al tempo della repressione dei moti rivoluzionari repubblicani proclamati dalla “Giovine Italia”. Pensa che Giuseppe Mazzini morì a Pisa in clandestinità sotto il falso nome di dottor Brown.”

Nipote: Ricordo di averti sentito parlare della battaglia di Monterotondo del 1867, quando hai presentato alla biblioteca comunale “Paolo Angelani” il tuo saggio su Raffaello Giovagnoli, garibaldino e letterato di Monterotondo. Voi lo conoscevate in famiglia?
Nonno: “Hai ragione, ricordi bene, Raffaello Giovagnoli fu un personaggio di grande levatura politica e letteraria che diede molto lustro a Monterotondo. Pensa che tutta la sua famiglia, dal padre, Francesco, esponente di spicco della Repubblica romana del 1849, ai suoi fratelli Ettore, Mario e Fabio e al cugino Alessandro, furono definiti dallo stesso Garibaldi “I Cairoli del Lazio” per la loro ardimentosa partecipazione alle battaglie come volontari garibaldini. Mio nonno Paolo, che li conosceva bene, parlava spesso di loro in famiglia e amava leggere a noi nipoti i tanti romanzi di Raffaello, non solo “Il Marchese del Grillo” e “Gaetanino”, più adatti a noi ragazzini, ma anche quell’affascinante romanzo storico dal titolo “Spartaco”. Ricordo ancora mio nonno sfoggiare con soddisfazione l’edizione illustrata, in carta satinata. Questo libro, edito nel 1874, è ancora oggi presente nelle biblioteche di famiglia, specialmente quelle russe e cinesi, come di recente attestato da una trasmissione di Rai Storia, condotta da Paolo Mieli. Un bel busto marmoreo di Raffaello Giovagnoli si trova accanto al monumento Cippo-Ossario garibaldino di Monterotondo, dove spiccano quattro lapidi commemorative, una delle quali dettata dallo stesso Garibaldi. Ero pieno di ammirazione quando mio padre Mazzini, quale Vice-sindaco di Monterotondo, nella ricorrenza del 3 novembre della battaglia di Mentana, vi saliva per tenervi il discorso commemorativo.”

Nipote: Ricordo bene quel giorno, in cui noi quattro nipoti ci siamo fatti la foto di gruppo, insieme al sindaco Alessandri, con la sua fascia tricolore, sotto la Porta Garibaldi di Monterotondo ricolma di lapidi. Non ricordo perché….
Nonno: “Perché stavamo partecipando alla cerimonia di commemorazione del 150.mo anniversario della battaglia garibaldina di Monterotondo del 25 e 26 ottobre 1867 e proprio questa Porta, la più importante della cinta muraria di Monterotondo, è divenuta un simbolo dello scontro tra i “garibaldini” e le truppe “papaline”, per lo più francesi. Essa dovette essere bruciata per poter espugnare la città. Ciò costò a Garibaldi la perdita di centinaia di volontari. Voglio su questo dirti che i tanti morti garibaldini, rispetto ai papalini, non sono dovuti a una colpa o trascuratezza di Garibaldi. Sono stato da sempre convinto che Garibaldi, nell’affrontare i confronti militari, abbia tenuto nella massima considerazione la salvezza dei suoi volontari, evitando di esporli a inutili sacrifici o di spingerli a missioni impossibili. La spedizione del 1867, nota come “Campagna dell’Agro romano per la liberazione di Roma”, fu molto sanguinosa, non per temerarietà di Garibaldi, ma perché venne a mancare, inaspettatamente e incomprensibilmente l’insurrezione del popolo di Roma, che ben lo aveva acclamato proprio Generale a difesa di quella Repubblica del 1849. Quando si rese conto del venir meno di questo apporto, essenziale per raggiungere l’obiettivo, dispose una ritirata verso l’Abruzzo, passando per Tivoli ma, per una serie di circostanze sfavorevoli, le truppe garibaldine caddero nell’imboscata fatta dalle truppe pontificie, affiancate da quelle francesi nei pressi di Mentana. Tra le molte lapidi poste sulla Porta una è stata fatta collocare nel 1961 da mio fratello Paolo, allora giovane sindaco di Monterotondo, che fu invitato a Torino alle manifestazioni per il centenario dell’Unità d’Italia. Ma la più bella lapide che ti voglio segnalare è quella dettata dal famoso filosofo e politico Giovanni Bovio che così recita: “QUESTA PORTA / DIFESA DA’ ZUAVI / ARSA DA’ GARIBALDINI / NEL XXV OTTOBRE MDCCCLXVII / INDICHIAMO AI PASSANTI / DOPO XXXIII ANNI / A MONITO / CHE DOGMI MURA ED ARMI / MAL SI ERGONO TERMINI / AL SECOLO.” Testo bellissimo, che porto a memoria.”

Nipote: Ti ho sentito parlare di una storia singolare legata a una di queste lapidi che ha riguardato qualcuno della nostra famiglia.
Nonno: “Vedo che ti ricordi ciò che vi racconto nei nostri incontri familiari, mi fa piacere. La vicenda ha riguardato il fratello di mia nonna Adele, madre di Mazzini, che si chiamava Adolfo. Era un uomo dolce, ma di grande temperamento. Rimanevo sempre affascinato dai suoi racconti sul vissuto militare nella campagna d’Africa, in luoghi così carichi di mistero, dove le notti si riempivano di ululati delle iene, intorno ai loro accampamenti e, poi, il raccapriccio dei morti per la micidiale sconfitta italiana ad Adua del 1896. Esperienza che lo portava a esprimere il suo biasimo, richiamandosi alle parole di condanna di un garibaldino illustre, Felice Cavallotti, che partecipò alla battaglia di Monterotondo del 1867. Questi contestava al garibaldino Crispi, capo del Governo, di aver intrapreso l’avventura coloniale in stridente contrasto con gli ideali risorgimentali, rivolti a spingere i popoli ad affrancarsi da despoti stranieri, che ne occupavano il territorio, com’era stato per l’Italia. Zio Adolfo ha lasciato un bel ricordo tra i monterotondesi, specialmente tra contadini e operai, promuovendo, nei primi del ‘900, le cooperative per la coltivazione dei vigneti e per la costruzione delle case popolari. Di sentimento anticlericale, allora diffusamente presente, era riuscito a ottenere che la Piazza del Duomo diventasse Piazza Giordano Bruno, il filosofo che fu condannato dalla Chiesa per le sue idee e messo al rogo a Piazza Campo de’ Fiori. Con l’avvento della dittatura fascista, Zio Adolfo visse una vita da perseguitato politico con l’accusa di affiggere manifesti clandestini. Ed eccoci allora di nuovo alla Porta Garibaldi, dove i fascisti, per lasciare testimonianza che a Monterotondo si era formata una delle colonne armate della Marcia su Roma (cioè il colpo di Stato con il quale Mussolini andò al Governo nel 1922, instaurando una dittatura che durò oltre vent’anni), vollero porre una loro lapide che accomunava lo spirito patriottico dei due corpi di volontari, quello delle camicie rosse garibaldine del 1867 a quello delle camicie nere fasciste del 1922, che così sentenziava: “additando ai futuri il suo duplice orgoglio, per un’Italia che rinnova la grandezza di Roma”. La reazione di Zio Adolfo fu quella di andare ad affiggere, nottetempo, sulla lapide un suo manifesto che così recitava: “QUESTA PORTA DIFESA DAGLI ZUAVI/ARSA DA GARIBALDINI/DOVE SOSTÒ NELL’INERZIA CODARDA/LA VECCHIA GIOVINEZZA DELLE CAMICE NERE/ RESTAURATRICI DELLA PIÙ INFAME TIRANNIDE/ADDITA AI FUTURI/ L’IGNOMINIOSA ANTITESI TRA I DUE FATTI/CHE UNA PROFANATRICE MENZOGNA/ VOLLE UNIFICARE”. Scoperto, fu imprigionato e schedato. Gli fu vietato l’espatrio, malgrado avesse sposata zia Lina, che era francese. Nell’Archivio Centrale di Stato all’EUR ho trovato un fascicolo corposo, dove si riscontra che non compì mai atti violenti, ma fu ugualmente ritenuto capace di atti “inconsulti”. Sulla sua scheda si legge che si rese colpevole di non essersi presentato al lavoro il Primo Maggio 1929, Festa dei lavoratori istituita in Italia dal 1890 e abolita dal Fascismo. Mi piace ricordarti che di lui conservo una preziosa raccolta di poesie di satira politica antifascista, gustosa e originale. Sarà bello che un giorno voi giovani, spinti dalla curiosità, andiate a conoscere più a fondo la storia dei nostri avi per farvi un’idea di quanto difficile e faticoso fosse perseguire gli ideali del nostro Risorgimento per poter realizzare un’Italia, sì unita, ma anche emancipata sui valori della libertà, della coscienza civica, della legalità, dell’equità sociale, del pacifismo e della crescita culturale, contrastando, poi, anche le derive autoritarie che minacciavano tale processo democratico.

Nipote: Nonno, trovo molto stimolante quanto mi hai detto e mi fa sentire anche orgoglioso dei nostri avi e dei loro ideali. Ma mi chiedo, se di quel bagaglio ideale del Risorgimento si siano raggiunti tutti i traguardi posti.
Nonno: “Vorrei dirti di si, ma purtroppo ritengo che ci manchi qualcosa di molto importante: la convivenza pacifica tra i popoli. Non siamo riusciti ad attuare una strategia di salvaguardia della pace e a trovare un interlocutore autorevole che attraverso le “armi” della diplomazia appiani i contrasti per far tornare l’armonia. Devi considerare che già nel 1849 i nostri nonni del Risorgimento erano riusciti a fissare nei Principi fondamentali della Costituzione della Repubblica romana una regola indiscutibile:”La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità….”. Cosa ne è stata di questa regola aurea nel nostro contesto nazionale e in quello europeo? Dimenticata, anzi tradita. Abbiamo, come italiani, intrapreso guerre contro altri popoli, non per difenderci ma per espanderci. Non c’era più neanche l’alibi di andare a “civilizzare”, quando abbiamo invaso l’Albania, la Francia e la Russia. Alleandoci con i tedeschi e i giapponesi volevamo conquistare il mondo intero. Invece abbiamo concorso a scatenare la Seconda Guerra Mondiale che, nella classifica del “Libro nero dell’Umanità”, scritto da White, occupa il primo posto in termini di morti e devastazioni di tutti i tempi. Questo avvenne quando ancora fresche erano le ferite della Grande Guerra, connotata dalla più umiliante e atroce delle forme di conflitto, quella della guerra di trincea. Tuo nonno Mazzini visse questa esperienza per 4 lunghi anni. Ricordi che siamo andati in escursione sul Monte Ortigara? Il monte conserva ancora vive le testimonianze della sanguinosa battaglia del 1917, con le gallerie e le trincee ed è ancora possibile, nelle cavità, trovare residuati bellici. In quella battaglia dell’Ortigara, in cui caddero oltre 20.000 soldati italiani, per lo più alpini, nonno Mazzini si salvò, ma vide morirgli accanto il suo amico e omonimo Mazzini Mollica, il cui nome è riportato tra quello dei caduti nella stele del Parco della Rimembranza di Monterotondo.”

Nipote: Anche noi giovani manifestiamo spesso per la pace, soprattutto in questo periodo in cui la guerra è tornata in modo così prepotente tra di noi. Pensi che ce la faremo a far prevalere questi validi ideali che sembra vengano considerati ormai vecchi e superati?
Nonno: “Proprio in questo periodo di mio sconcerto per la guerra in corso, che è tornata a insanguinare il suolo europeo, mi sono ricordato di aver letto su “Manlio”, l’ultimo romanzo scritto da Garibaldi, alcuni passi sul giudizio che lui dava della guerra. Te ne leggo qualche brano:
“…preferirei trovarmi in qualunque delle più dispiacevoli circostanze della vita, piuttosto che in una città presa d’assalto e fra i motivi di aborrimento della guerra questo è uno dei principali. L’uomo diventa bestia in simile circostanza, su d’un campo egli impiega tutta la sua forza, i suoi stratagemmi, tutta la somma di malizia di cui è capace, e che non è poca, per ferire, distruggere, annientare il suo simile, ma l’uomo belva contro belva-uomo, l’uno cade bagnato affogato nel proprio sangue, oppure le sue membra sono frantumate come i ramoscelli dell’arbusto schiacciato dalla valanga alpina, e l’uccisore, superbo millantatore, vanta la sua vittoria, la divulga ai quattro venti, e il sacerdote del Dio delle battaglie la santifica nel tempio con un tedeum. Ma nella città presa d’assalto vi è la canizie incapace di difendersi, la donna, i bambini che colpa non hanno della rabbia umana, delle glorie, delle vittorie, dei macelli. E credete voi che perciò l’uomo-belva s’intenerisca, rispetti gli innocenti. Oibò! È giustamente con questi uomini innocenti che egli fa il gradasso, lo spaccamonti…
Qui mi è forza accennare ad un’idea mia favorita sull’educazione nazionale in Italia. Tutti sanno quanto io sia nemico della guerra e che se ho dovuto farla nella mia vita ciò fu per essere figlio d’un popolo manomesso e calpestato da tiranni nostrani e stranieri; quindi non guerra per propensione o per venale interesse, ma per dignità individuale, nazionale, giacché meglio è morire che vivere da schiavo. Ora in Europa va progredendo l’idea di un arbitrato internazionale. Ma quando sarà attuabile cotesto umanitario concetto? Intanto i potentati si armano fino ai denti e vi saranno probabilmente dei nuovi conflitti tra le nazioni e chi sa per quanto tempo ancora!”
Un Garibaldi sconosciuto ai più, perché sembra inconciliabile con l’essere considerato come il più grande generale italiano degli ultimi tre secoli, come lo ha qualificato lo storico Alessandro Barbero. Occorre considerare che il sentimento di pacifista gli deriva dalla sua convinta adesione alle idee di Henri de Saint-Simon, il fondatore del socialismo francese, che propugnava l’importanza dei valori di fratellanza e solidarietà universale tra i popoli. Il suo convinto pacifismo trova la massima riprova a Ginevra, dove Garibaldi si reca nel settembre del 1867 e diventa protagonista del Congresso Internazionale per la Pace. Viene acclamato all’unanimità Presidente onorario, sebbene quell’assise fosse dominata da delegati di area progressista e di sinistra più consistenti e radicali, quali i rappresentanti dell’Internazionale socialista e del Movimento anarchico di Bakunin. Garibaldi presenta la sua mozione in 8 punti, nei quali enuncia la sua visione pacifista: “Tutte le Nazioni sono sorelle e la guerra tra loro è impossibile… tutte le querelle che sorgeranno tra loro dovranno essere giudicate da un Congresso internazionale… nessun uomo può uccidere un altro uomo se non lo schiavo oppresso dal suo tiranno”..
Pensa, tre canoni fondamentali espressi ben 156 anni fa e che avrebbero potuto costituire in Europa e nel mondo intero il cardine per salvaguardare la pace universale. Lo sanno bene i fautori del Secondo Risorgimento che riprenderanno, 80 anni dopo, quei canoni e li trasfonderanno nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nello Statuto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, i due strumenti che avrebbero potuto e dovuto garantire il graduale progresso per tutti gli uomini in un clima di solidarietà e fratellanza. Per le Nazioni che non avessero rispettato le regole pattuite, l’apposito corpo dei Caschi blu, quale unico gendarme dotato di armi, sarebbe intervenuto a farle rispettare. Purtroppo, la scarsa efficienza dell’ONU ha fatto si che da ormai troppo tempo ci imbattiamo in guerre sparse in tutto il mondo. Da ultimo, la guerra russo ucraina ci pone di fronte all’aggravarsi del rischio della sopravvivenza dell’umanità, come ci avvertono da tempo gli scienziati de’ “L’Orologio dell’Apocalisse”. Sono convinto della validità dell’idea lanciata da un giurista e filosofo italiano che ha scritto un bel libro sulla necessità di una “Costituente della Terra”, che prevede un patto di non aggressione tra tutte le nazioni del mondo, secondo precise regole. Sottolinea che non si tratta di un progetto utopico ma di una impellente necessità. L’autore è Luigi Ferrajoli, mi piace pensarlo uno dei nostri, cioè un garibaldino. Mi onoro di aderire ad un’Associazione garibaldina, che mira a mantenere vivi questi patrimoni, organizza studi e convegni e cura il mantenimento dei vari Musei garibaldini (Mentana, Riofreddo e Porta S.Pancrazio…).”
Nipote: Grazie nonno per queste tue parole. So che tu hai fatto la prima Marcia della Pace del 1961. Anche noi giovani ne abbiamo fatte e ne faremo. Mi impegno a mantenere vive le testimonianze scritte e orali che ci hanno lasciato gli avi e che tu hai così bene custodito.