Sabato 23 marzo, presso il Museo della Repubblica Romana, la presidente Raffaella Ponte e Alice De Matteo (Università degli Studi di Salerno) hanno dialogato con il presidente della sezione di Roma Fabio Pietro Barbaro sul tema “Esilio e volontariato in armi nell’Ottocento: una questione (anche) gastronomica”.
L’obiettivo è quello di presentare al pubblico le figure di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini
attraverso la prospettiva delle loro abitudini alimentari, al fine di cogliere la dimensione più intima
dell’esperienza del volontariato in armi del primo e dell’esilio del secondo.
Consumare cibo è un atto politico. Durante il processo di unificazione nazionale, l’identificazione di una cucina italiana – culminata nella sintesi di Pellegrino Artusi del 1891 – ha contribuito a definire appartenenze regionali e nazionali; rispondendo ad un processo di «invenzione patriottica» a cui hanno contribuito diversi attori. Se Camillo Cavour si avvalse di metafore gastronomiche per rivolgersi alle diverse componenti territoriali della penisola, quali «arance» e «maccheroni» per indicare rispettivamente siciliani e napoletani, gli emigrati politici coltivarono la memoria ed il mito della patria anche attraverso il cibo.
Politica, stereotipi e mito culinario italiano intercettarono le scelte gastronomiche quotidiane di Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Attraverso l’analisi dei rispettivi epistolari e memorie, la difficoltà di Mazzini nel riprodurre le ricette genovesi a Londra e l’importazione della cucina sudamericana nel menù garibaldino sono solo alcuni degli esempi che si inseriscono nella più ampia esperienza dell’esilio e del volontariato in armi che, accomunando generazioni di patrioti italiani, restituiscono la dimensione transnazionale della costruzione politico-identitaria.
La condizione dell’esilio fu comune alla generazione dei patrioti italiani che nel corso del XIX secolo combatterono per una patria libera e indipendente. Espulsi dal contesto di provenienza, gli esuli si confrontarono con la cultura dei luoghi di accoglienza, rafforzando la propria identità nazionale. È all’interno di questo contesto che consumare cibo assunse un significato politico. Al pari della forte connotazione genovese che caratterizzò la dieta mazziniana durante il lungo esilio compreso tra i territori svizzeri e la capitale britannica, anche Giuseppe Garibaldi fece della cucina nizzarda un elemento imprescindibile dei suoi pasti consumati durante gli anni trascorsi oltreatlantico. Abbandonata successivamente l’attività di corsaro e stabilitosi nell’isola sarda di Caprera, furono allora i piatti tipici della cucina latino-americana a non mancare sulla sua tavola.