di Gian Biagio Furiozzi
Napoleone III è indubbiamente il personaggio più enigmatico di tutto l’Ottocento. Un personaggio amletico, ambiguo, contraddittorio. Il futuro imperatore dei Francesi, è stato osservato, “debutta come rivoluzionario pro-italiano nel 1831 ma, da Principe-Presidente dell’effimera Seconda Repubblica, spedisce il maresciallo Oudinot a schiacciare la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi. Poi diventa imperatore e torna italofilo: la Crimea e la guerra del 1859, decisa peraltro dopo che l’italiano Orsini aveva tentato di ucciderlo, e lasciata a metà a Villafranca con grande ira del conte di Cavour. Poi Napoleone III chiude un occhio su Garibaldi a Napoli, quindi provoca indirettamente Aspromonte, poi cede il Veneto all’Italia, poi difende il papa a Mentana e finalmente viene fatto sloggiare dai prussiani: si capisce che anche i Francesi erano sconcertati dalla sua politica”. Di fronte a un tale personaggio, abbiamo un Garibaldi che si batté sempre, con coerenza e determinazione, per l’indipendenza dell’Italia e per la libertà di tutti i popoli e che – quindi – non poteva non avere con lui motivi di contrasto profondo, sia sul piano politico che su quello morale. Un contrasto che ebbe inizio nel 1849 e terminò solo nel 1870, con l’uscita di scena dell’imperatore francese.
Il primo motivo di rancore di Garibaldi nei confronti di Napoleone III fu causato dall’intervento militare da questi deciso contro la Repubblica Romana. Nell’aprile-maggio del 1849, mentre Mazzini, ragionando da politico, faceva ancora affidamento sul non intervento militare della Repubblica francese, Napoleone III gettò la maschera, portando il corpo di spedizione a 30.000 uomini, muniti di sei batterie di artiglieria, un parco d’assedio e vari reparti del genio, con la motivazione di voler “prevenire” un intervento dell’Austria, ma contravvenendo allo stesso art. 5 della Costituzione del 1848, che vietava ogni interferenza della Francia negli affari di altri Paesi. Garibaldi, che peraltro, ragionando da militare, avrebbe voluto agire d’anticipo, senza attendere i rinforzi inviati dall’ambizioso presidente d’Oltralpe, spinto a ristabilire a Roma la sovranità del papa anche dal desiderio di guadagnarsi il favore dei cattolici francesi, non glielo avrebbe mai perdonato.
Non migliorò certo la sua considerazione per lui l’episodio del colpo di Stato del 2 dicembre 1851, che affermò il potere personale di Luigi Napoleone, il quale assunse, l’anno successivo, il titolo imperiale. Lo scoppio della Seconda guerra d’Indipendenza, nel 1859, portò ad un momentaneo, e forzato, riavvicinamento tra i due, in quanto Garibaldi accolse “di buon grado”, scriverà nelle sue Memorie, l’invito di Cavour a combattere contro l’Austria, anche se “non m’ispirava fiducia il suo alleato, è vero; ma come fare, bisognava subirlo (…). Bisogna arrossire, ma pur confessarlo: colla Francia per alleata, si faceva la guerra allegramente, senza di essa, nemmeno per sogno”.
Ma, ben presto, intervennero due episodi a far riemergere il suo rancore verso l’imperatore francese: il precipitoso armistizio di Villafranca, che irritò lo stesso Cavour, e che gli confermò la scarsa affidabilità di colui che qualcuno ha definito il “callido alleato” del Piemonte, e la pretesa della cessione di Nizza, sua città natale, alla Francia, cosa di cui ritenne corresponsabile, in questo caso, anche Cavour.
La cessione venne deliberata dal Parlamento di Torino il 24 marzo 1860 e venne confermata da un plebiscito svoltosi a Nizza il 15 aprile successivo, che Garibaldi ritenne inficiato dalle pressioni, di ogni tipo messe in atto dal Governo francese. Lo disse apertamente in un’interpellanza alla Camera dei deputati, nella quale denunciò le pressioni, “le lusinghe e le minacce senza risparmio” esercitate su quelle popolazioni dagli agenti francesi, e aggiunse: “Quanto a me non l’avrei stipulato mai, ed avrei preferito sempre tutelare la dignità del mio paese, anziché gettarmi nel vassallaggio del padrone della Francia. Era poi convinto che l’esito del plebiscito fosse stato condizionato pesantemente anche dalle ingerenze del clero. Tutto questo era noto, ma vi è un clamoroso episodio, rivelato dallo stesso Garibaldi in una nota delle sue Memorie, che provava, scrive, “la malizia dell’uomo del 2 dicembre, de’ suoi complici, e l’ingerenza che lo stesso aveva sulle cose nostre”.
L’episodio è il seguente: il 17 giugno 1859 il Generale, impegnato nelle operazioni contro gli Austriaci, giunse a Gavardo, cittadina in provincia di Brescia. Qui, racconta, “mi giunse un conosciuto N.A., inviato dal quartier generale dell’imperatore colla missione seguente: ‘Io sono incaricato’, mi disse, di offrirvi quanto abbisognate per voi e per la vostra gente: denaro, oggetti di qualunque specie, saranno messi a vostra disposizione. Chiedete pure. L’imperatore conosce i molti vostri bisogni, dei vostri militi, e vuol rimediarli. Egli non può tollerare l’abbandono e lo stato miserabile in cui siete lasciato’. Io risposi: ‘Di nulla abbisogno”. Si trattò dunque di un vero e proprio tentativo di corruzione, che Garibaldi commenta con queste parole: “Era un mercato bell’e buono. Si stava trattando di vendere Nizza, e si voleva un complice di più: un nizzardo”. Napoleone III conosceva, forse, i bisogni economici di Garibaldi, ma certo non conosceva il suo carattere fermo e la sua moralità integerrima.
L’atteggiamento non particolarmente ostile tenuto da Napoleone III verso la spedizione dei Mille, nel corso della quale si era limitato a dare consigli al sovrano napoletano e a suggerire al Governo sardo di impedire ai garibaldini il passaggio dello Stretto, unito all’euforia per la vittoria del Volturno sull’esercito borbonico, spinsero Garibaldi, nell’ottobre 1860, ad inviare alle Potenze d’Europa il famoso Memorandum, proponendo, in tono quasi profetico, la federazione dei popoli europei in un solo Stato. Ponendosi il problema di stabilire a chi spettasse l’iniziativa di “questa grande opera”, egli l’attribuiva, sorprendentemente, alla Francia e al suo imperatore. Ovvero, “al Paese che marcia in avanguardia della rivoluzione!”. E si chiedeva: “L’idea di una confederazione europea, che fosse posta innanzi dal capo dell’impero francese, e che spargerebbe la sicurezza e la felicità nel mondo, non vale essa meglio di tutte le combinazioni politiche che rendono febbrili e tormentano ogni giorno questo povero popolo?”. La Francia, definita da Garibaldi “arbitra dell’Europa”, e in stretta collaborazione con l’Inghilterra, avrebbe potuto coinvolgere la Russia e la Prussia e trascinare poi tutti gli altri Stati, spinti o dalla necessità o dall’imitazione.
Ma la tregua tra i due personaggi, ancora una volta, durò poco, e fu di nuovo la questione di Roma a riaccendere il rancore dell’eroe dei Mille. Alla fine di giugno del 1862, sbarcato in Sicilia per tentare di risalire la Penisola con i suoi volontari, al grido di “Roma o morte!”, arringò la folla di Palermo pronunciando infuocate invettive contro l’imperatore, accusato di premere sul Governo italiano perché impedisse l’impresa, causando tra l’altro la destituzione del prefetto Giorgio Pallavicino, reo di non avere interrotto il discorso. Il Governo, confermando con il suo atteggiamento che Napoleone III “manteneva sotto il suo controllo la politica italiana”, intervenne con decisione contro Garibaldi, tanto da farlo prendere a fucilate sull’Aspromonte.
Garibaldi giudicò duramente la successiva Convenzione di settembre, che confermava in pratica l’opposizione francese alla conquista di Roma, accomunando nelle critiche Napoleone III e i governanti italiani, e proseguì il suo tentativo di liberare Roma con la forza. Lo fece nel 1867, radunando 6.000 volontari. Il 26 agosto giunse ad Orvieto, dove fu accolto dalla banda musicale e dalle acclamazioni entusiastiche della popolazione, alla quale rivolse un infuocato discorso, concentrato in gran parte, ancora una volta, contro l’imperatore francese. “Bonaparte e i preti – attaccò – credono che noi abbiamo paura, e parlano di 40.000 soldati pronti ad imbarcarsi, ma noi mostreremo che s’ingannano, che Roma è nostra e vogliamo andarci; abbiamo l’esercito, avremo i volontari, e non solo 50.000 come l’ultima volta, ma un milione. Bisogna sradicare dal cuore dell’Italia il cancro che la rode – il papato – i preti sono insetti, vipere, lupi e coccodrilli, tenuti su e in baldanza dal Bonaparte”.
Comunque, egli distinse Napoleone III dalla Francia nel suo insieme, perché – disse – “la Francia non è nemica dell’Italia, Bonaparte solo è reo, la nazione va distinta da lui, la nazione Francese ci è sorella, essa si compiange della politica del suo capo. Quelli che sono a Roma sono mercenari”. Il discorso fu accolto, naturalmente, da applausi frenetici e prolungati.
Le accuse di Garibaldi a Napoleone III non erano infondate, perché, ai primi sconfinamenti delle bande garibaldine in territorio pontificio, di fronte al comportamento ritenuto “ambiguo” del Governo italiano, l’imperatore, sempre contrario ad ogni iniziativa contro Roma, minacciò di trarre “le dovute conclusioni”, ovvero di procedere ad una dichiarazione di guerra. A questo punto il presidente del Consiglio Rattazzi, che fino allora lo aveva lasciato fare, si affrettò a condannare ogni attentato all’ordine pubblico e garantì la piena fedeltà ai trattati internazionali “contro chiunque”. Garibaldi cercò di forzare le cose e si diresse a Terni per raggiungere Menotti, confidando sul fatto che nessuno osasse arrestarlo, essendo tra l’altro un deputato del Parlamento. Ma, informato da un solerte console francese, l’imperatore fece inviare alle autorità italiane un vibrato dispaccio con il quale si chiedeva l’immediato arresto del “pericoloso rivoluzionario”.
Così, alla fine di settembre la marcia verso Roma fu fermata dalle autorità italiane che, al fine di “tranquillizzare Napoleone III”, disposero l’arresto del Generale, che si stava recando a Firenze, a Figline Valdarno. Il 19 ottobre, due giorni dopo che l’imperatore aveva deciso l’intervento delle truppe francesi a Roma, Rattazzi presentò a Vittorio Emanuele le sue dimissioni, sostituito dal generale Luigi Federico Menabrea, un severo conservatore, che fece emanare dal re un proclama nel quale si sconfessava l’iniziativa garibaldina, con ciò intralciando notevolmente, anche se non annullando del tutto, l’impresa che, anche per questo, avrà l’esito sfortunato che conosciamo.
In sostanza Mentana, avrebbe scritto Garibaldi alcuni anni dopo in uno dei suoi romanzi, fu il risultato delle “mene scellerate” congiunte dei Governi di Parigi e di Firenze. Ma se la prese soprattutto con l’imperatore francese, definito “il genio del male”, che “vegliava ancora sulla conservazione del principale suo sostegno: il pontefice della menzogna! Dalle sponde della Senna, ov’egli impera, per la disgrazia della Francia e del mondo”.
L’amaro risultato della campagna del novembre 1867 accentuò la sua tendenza a valutare i fatti politici secondo le categorie contrapposte del bene e del male, applicabili, in primo luogo, proprio a Napoleone III. Il 4 febbraio 1868, congratulandosi con Giuseppe Beghelli, direttore del giornale “La Democrazia”, per la sua campagna contro la politica reazionaria dell’imperatore francese, gli scrisse infatti: “Mio caro Beghelli, facendo guerra al Bonaparte voi fate guerra al male, male di cui il mondo sente i danni; e noi gente italiana, danni…ed oltraggi, che molta codardia vi vuole per trangugiarli”.
Scoppiata due anni dopo la guerra franco-prussiana, il 6 settembre 1870 Garibaldi manifestò la sua soddisfazione per la vittoria della Prussia, di cui si era augurato il trionfo, disse, per il solo “desiderio di abbattere il più esecrabile tiranno dei tempi moderni”. Con l’uscita di scena del Bonaparte la guerra, in Francia, diventò la guerra del popolo francese contro le ingiuste pretese di un vincitore prepotente. Era dunque dovere dell’Italia di “volare in soccorso della Francia, dopo che Napoleone non la disonora più”. Pochi giorni dopo, dalle pagine del “Movimento” di Genova, rivolse agli “amici italiani” il seguente appello: “Ieri vi dicevo: guerra ad oltranza a Bonaparte. Vi dico oggi: sorreggete la Repubblica francese con tutti i mezzi”. E, dimenticando l’astio per l’imperatore, accorse con i suoi volontari in difesa della Francia repubblicana, alla quale dette la vittoria di Digione, l’unica – come si sa – conseguita dal Paese transalpino contro la Prussia.
Garibaldi tornò a parlare con disprezzo di Napoleone III, alcuni mesi dopo, in due lettere. Nella prima, diretta al direttore di un giornale inglese, scrisse: “L’Impero di Bonaparte, basato sui complici, i preti e gli altri che lo fondarono, cadde”. Un Impero “nato da menzogne e da corruzione, che pesò per vent’anni sopra un popolo disgraziato, con tutte le arti raffinate della menzogna e della corruzione”. Nella seconda, diretta nel settembre successivo all’amico Francesco Crispi, si dichiarò d’accordo con lui sul fatto che Napoleone III non fosse stato favorevole all’Unità italiana. Questa, scrisse, “è opera degli Italiani, e Bonaparte era certamente il più interessato a che essa non avesse luogo. Sono quindi con voi”.
Ma anche i suoi successori lo delusero quasi altrettanto, tanto da fargli dire, qualche tempo dopo, che se il Bonaparte era stato “l’imperatore menzogna”, anche “Thiers, come Bonaparte, è l’uomo menzogna”. E, nel maggio 1880, con riferimento al contrasto italo-francese per il controllo della Tunisia, avrebbe scritto alla Direzione del giornale “La Riforma” le seguenti amare parole: “Il Trattato della Francia col Bey di Tunisi mi fa crollare la buona opinione da me nutrita verso la presente Repubblica Francese, che io ebbi l’onore di servire in tempi difficili”.