di Donato D’Urso
Alla fine della campagna militare nel Meridione l’esercito garibaldino aveva raggiunto la forza di oltre 50.000 uomini, così in pochi mesi s’erano moltiplicati i Mille sbarcati a Marsala nel maggio 1860. L’intenzione del governo di Torino, quando ancora non s’erano arrese le fortezze borboniche di Messina, Gaeta e Civitella del Tronto, fu subito chiara: sciogliere quella massa armata, per motivi sia interni che di politica internazionale. Troppo forti erano i timori per la “rivoluzione” dal basso e le “mene” del partito d’azione. Le alte gerarchie militari furono inflessibili, disponibili ad assorbire nelle forze regolari solo un ristretto numero di ufficiali garibaldini, dopo severa selezione. Del resto, come disse Luigi Settembrini, l’esercito sabaudo era «il fil di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita».
Giuseppe Garibaldi, sebbene o forse proprio perché circondato da fama universale e alone di gloria come nessun altro, fu “liquidato” piuttosto bruscamente e tornò a Caprera senza avere ricevuto onori e riconoscimenti, portandosi dietro alcuni pacchi di caffè e di zucchero, un po’ di legumi e sementi, una balla di merluzzo secco. A ragione si parlò di ingratitudine, innanzitutto di Cavour e del re Vittorio Emanuele, nei confronti di chi aveva offerto un regno senza chiedere nulla in cambio. «Si voleva godere il frutto della conquista, ma cacciarne i conquistatori», sono parole attribuite allo stesso Garibaldi. Ha scritto lo storico Alfonso Scirocco: «Non fu, però, accettabile l’ostentazione di questa intransigenza, il silenzio sui Mille e il loro duce in tutti gli atti compiuti in quei giorni in nome della monarchia, il gretto spirito burocratico con cui furono trattate le camicie rosse, l’insensibilità ai sentimenti di Garibaldi mostrata da Cavour […]. Il 6 novembre a Caserta, davanti alla Reggia, Garibaldi passò in rassegna le formazioni che avevano combattuto la guerra vittoriosa. Il re aveva promesso di assistere a questo atto solenne. Non si presentò».
Solo inizialmente, il governo di Torino ipotizzò di inquadrare i volontari garibaldini in un apposito corpo dell’esercito sia pure separato, intanto largheggiò nei benefici economici con lo scopo evidente di ottenere, nella misura più larga possibile, le dimissioni degli ufficiali e il congedo dei gregari. Ottenne lo scopo ricorrendo anche a lungaggini e cavilli burocratici: tra mugugni e malumori, in poche settimane, tra novembre e dicembre del 1860, quasi tutti i sottufficiali e i semplici militi dell’esercito meridionale tornarono a casa e, nel contempo, tre quarti degli ufficiali dettero le dimissioni. Chi non rinunziò fu Giovanni Battista Pittaluga (1840-1920).
Nel 1860 Giuseppe Cesare Abba viaggiò con lui verso Genova, senza conoscerne esattamente le intenzioni ma intuendone il carattere: «È un fuoco […] Nella sua fisionomia vi è del Saint Just. Guai a quel povero prete o frate che gli venisse a cascare fra le mani». Pittaluga aveva vent’anni e aveva lasciato famiglia e lavoro per combattere agli ordini di Garibaldi.
Nato ad Acqui in Piemonte nel 1840, in tenera età perse il padre, modesto sarto e così la madre decise di trasferirsi con i figli presso parenti a Castello d’Annone. A 15 anni, senza aver potuto frequentare la scuola neanche sino alla terza elementare, Giovanni Battista Pittaluga trovò lavoro a Pontedecimo presso le officine delle strade ferrate come fabbro ferraio aiutante limatore. Oltre a dimostrare scrupolosa diligenza (come attestato nel libretto di lavoro), brillò per una formidabile forza di volontà, cominciando a studiare da autodidatta per acquisire un po’ di istruzione.
Il 5 maggio 1860 s’imbarcò a Quarto sul Lombardo comandato da Nino Bixio. Quando la nave, insieme col Piemonte fece sosta a Talamone in Toscana, i volontari furono ripartiti in sette compagnie. Garibaldi decise di prelevare da ciascuna una decina di uomini per formarne un’ottava, da inviare in avanguardia negli stati pontifici, con obiettivo finale lo sconfinamento nel regno delle due Sicilie, al fine di provocare il massimo scompiglio, distraendo forze e attenzione mentre il grosso dei garibaldini agiva altrove, molto più a Sud.
All’appello si fecero avanti più uomini del necessario, per quella che avrebbe dovuto essere l’“avanguardia” dei Mille. Ne furono selezionati 64, a cui s’aggiunsero circa 80 livornesi guidati da Andrea Sgarallino. Il comando della spedizione fu affidato al forlivese Callimaco Zambianchi, veterano della difesa di Roma del 1849, conosciuto per il violento anticlericalismo. Passata la frontiera, presto si rivelò del tutto infondata la speranza che i sudditi del Papa, all’apparire dei garibaldini, insorgessero contro il governo. Tutto andò storto e il 19 maggio 1860, a Grotte di Castro sulla via di Orvieto, la colonna fu affrontata e dispersa dai gendarmi pontifici a cavallo.
Pittaluga, rimasto leggermente ferito nello scontro, riuscì a riparare fortunosamente a Livorno, dove poté imbarcarsi su una nave francese, ricongiungendosi ai Mille in Sicilia, dopo una tappa a Malta. Partecipò al resto della campagna militare, inquadrato nella XV divisione Türr, brigata Eber.
Già nel novembre 1860 egli, che nella colonna Zambianchi aveva svolto compiti di furiere e anni dopo fu lo storico della sfortunata “diversione”, si rivolse a Garibaldi perché fossero riconosciuti diritti e meriti del gruppo di cui aveva fatto parte. Per molto tempo a ciò non bastarono neppure le nette dichiarazioni rilasciate dall’Eroe dei due mondi a Pittaluga: «Per mio ordine ha partecipato al distaccamento di Talamone. Ha perciò gli stessi diritti degli sbarcati a Marsala e desidero che possa farli valere […] I componenti di quel distaccamento furono scelti tra i Mille già imbarcati e diretti verso la Sicilia, per mio ordine eseguirono una operazione diversiva».
Pittaluga e i compagni di Talamone dovettero penare prima di ottenere la prestigiosa medaglia commemorativa dei Mille e il vitalizio. Il Nostro scrisse amareggiato a Giuseppe Guerzoni: «Noi collettivamente non siamo né carne né pesce». Addirittura, qualcuno malevolmente alluse a quel gruppo di volontari come a imboscati.
La domanda di Pittaluga d’essere ammesso nell’esercito regolare fu invece accolta. Nelle premesse ho detto quanto ciò non fosse per nulla scontato. Forse, a differenza di molti meridionali, gli giovò essere piemontese. A Ivrea frequentò la scuola militare di fanteria e intanto si mise a studiare come un matto: «Io dovevo vincere la mia grande ignoranza». I superiori lo tenevano comunque d’occhio in quanto ex-garibaldino (e mazziniano). Nei rapporti usavano le parole: «Professa opinioni assai avanzate» e, non a caso, nelle caserme sabaude era dispregiativa l’espressione A l’è un garibaldin.
Nel 1862, subito dopo i tragici fatti di Aspromonte, mentre il re si trovava a Ivrea e il popolo lo festeggiava, Pittaluga avvilito e adirato gridò in pubblico: «Maestà, viva Garibaldi!». Per questo fu messo agli arresti e fatto oggetto di un’inchiesta disciplinare. Pare che Vittorio Emanuele sia intervenuto in suo favore: «A l’è ‘na masnuiada! Ca i fassu niente! Ca lu lassu ste’». Comunque sia è un fatto che la carriera militare di Pittaluga non fu affatto rovinata da quell’episodio clamoroso.
Nel 1866 egli partecipò alla terza guerra d’indipendenza nella 20ª divisione comandata dal generale Paolo Franzini Tibaldeo e facente parte del corpo d’armata di Cialdini. L’impegno nello studio, l’intelligenza e l’attaccamento al dovere di Pittaluga furono premiati con l’ammissione nel corpo di Stato maggiore: superò altri 1.250 concorrenti. Per alcuni anni lavorò nel prestigioso Istituto Geografico Militare, poi insegnò storia militare e tattica alla Scuola di guerra, lui che era stato semi-analfabeta. Promosso colonnello comandò il 27° reggimento fanteria prima a Chieti poi a Bologna. Durante i moti scoppiati in Sicilia alla fine del 1893 (i cosiddetti Fasci Siciliani), inviato a Caltanissetta affrontò la situazione di emergenza evitando il ricorso alla forza e scegliendo di affrontare praticamente da solo la folla ammassata minacciosamente sotto la prefettura. La sua opera di convincimento riuscì e Napoleone Colajanni rievocando gli avvenimenti di Sicilia citò in termini positivi l’ufficiale piemontese. Altrove nell’isola accadde ben altro, con tragico bilancio di morti e feriti nella repressione condotta dall’esercito. Quando Pittaluga rese testimonianza al processo contro i presunti capi politici della rivolta, un giornale scrisse che tale testimonianza, per equilibrio e serenità, era «un atto di valor civile e di valor militare insieme combinati».
Inviato successivamente in Eritrea, Pittaluga vi prestò servizio quando governatore della colonia e comandante militare era Oreste Baratieri, anche lui ex-garibaldino. Come sappiamo la campagna militare sfociò nella tragica sconfitta di Adua (marzo 1896), vissuta da Pittaluga in seno alla brigata Ellena. Rientrato in patria, a Napoli, col grado di maggiore generale, ebbe come superiore il principe ereditario Vittorio Emanuele che non aveva ancora trent’anni e, secondo tradizione, aveva fatto una carriera militare strepitosa.
Questo il brillante curriculum di Giovanni Battista Pittaluga, già fabbro ferraio aiutante limatore nelle ferrovie. Collocato in posizione ausiliaria a 62 anni e poi in congedo assoluto, morì a Roma nel 1920. Qualche anno dopo, a Castello d’Annone fu inaugurata una lapide con l’iscrizione: Operaio nell’officina, soldato dei Mille, tenente al Volturno, il generale Giovanni Pittaluga rimane esempio di volontà, sapere, probità, di dedizione alla Patria e al Dovere.
Di lui sono conservate molteplici pubblicazioni su temi militari, tra cui: La pace e le cause della guerra (1889); Istruzioni sulle armi e sul tiro per la fanteria (1895); L’Eritrea giudicata in Francia (1897); Tolstoj e la guerra (1899); I bersaglieri-alpini (1904); La diversione: note garibaldine sulla campagna del 1860 (1904). La figlia Rosetta nel 1922 pubblicò nella «Rassegna storica del Risorgimento» un lungo saggio dal titolo “Giovanni Pittaluga. Nuove note sulla campagna Garibaldina del 1860”.
Vittorio Emanuele Pittaluga, figlio di Pietro fratello di Giovanni Battista, anche lui militare, nel 1919 reggeva il comando di Fiume quando i legionari di d’Annunzio compirono la nota impresa. Egli cercò di dissuadere il poeta a proseguire ma non volle fare uso della forza, perché «nipote d’uno dei Mille non avrebbe mai fatto sparare sui soldati italiani».