Timoteo Riboli, medico personale e grande amico di Garibaldi (foto it.wikipedia.org)

GIUSEPPE GARIBALDI UN CONTRIBUTO A SOSTEGNO DELLA VACCINAZIONE

di Stefania Magliani*

Garibaldi, a tutti noto per le sue imprese militari, rivela numerosi altri aspetti del suo carattere e del suo impegno; e se è vero che ormai, seppure con fatica, è stato riscoperto il suo pensiero in difesa della libertà, della emancipazione e, soprattutto, degli ultimi, tanto da averlo definito “cavaliere dell’umanità”, non va dimenticato il suo forte interesse per i giovani, ma anche per la natura, per l’ambiente e per gli animali. Ora possiamo però aggiungere un altro aspetto della sua ricca sensibilità verso gli altri: l’essersi trovato davanti a diverse pandemie e a tante miserie umane gli ha fatto riconoscere il valore e il dovere della prevenzione, anche attraverso la vaccinazione.

I vaccini, tornati alla ribalta negli ultimi anni, ed oggi con particolare urgenza per la pandemia in corso, in passato sono stati considerati una benedizione, e la preoccupazione di ogni buon padre di famiglia. La lotta contro le malattie contagiose, inoltre, era spesso alla pari con quelle per la libertà e per i diritti umani.

Sul finire del Settecento, complici anche le teorie illuministe, la malattia non fu più considerata come evento ineluttabile, e si sviluppò quella che viene definita “medicina di difesa”, per la quale la vaccinazione fu un’arma fondamentale. La prima storica battaglia fu condotta dal medico inglese Edward Jenner contro il vaiolo, con l’inoculazione di materia vaccina messa a punto nel 1798, subito ripresa in Austria ma anche in territorio italiano grazie all’opera di Luigi Sacco, nell’allora repubblica Cisalpina, a cui è intitolato uno dei più prestigiosi ospedali milanesi, di cui tanto si parla in questo periodo.

Se già Napoleone I fu grande sostenitore della vaccinazione, ci piace ricordare che lo fu anche Giuseppe Garibaldi, amico di illustri medici, attento alle scoperte scientifiche, particolarmente sensibile alla salute e al benessere dei popoli, che considerava aspetti ineludibili per l’emancipazione dell’umanità. I miglioramenti da un punto di vista sanitario furono centrali anche nel suo ultimo grande progetto per la deviazione del Tevere.

Garibaldi ebbe a che fare con le epidemie fin da giovane, e in parte vi legò il suo destino. Nel 1835 tornando da Tunisi a Marsiglia, trovò la città infestata dal colera e – cosi ci racconta Gustavo Sacerdote (La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Rizzoli, 1933, p. 108) – si prodigò subito nell’assistenza ai malati presso il locale ospedale, nel ruolo di “benevolo”, titolo che veniva allora attribuito ai moderni volontari o, se si vuole, a quelli che oggi i media chiamano “angeli”. Ma va aggiunto che, con la condanna a morte che pendeva sulla sua testa per la fallita insurrezione di Genova dell’anno precedente, e con le quarantene nei porti che autorizzavano soltanto le rotte oltre oceano, colse l’occasione di un imbarco per Rio de Janeiro, che avrebbe cambiato la sua vita e inaugurato una delle più celebri pagine di storia.

Certamente dovette essere poi necessariamente interessato alle cure mediche durante le sue imprese militari, ma lo fu altrettanto a causa del suo stato di salute, minato fin dalla gioventù da una forma di artrite reumatoide. Fu poi colpito dalla tragica perdita di tre figlie; perse una prima Rosa, avuta da Anita, nata nel 1843 e morta a soli due anni, e una seconda Rosa che ebbe con Francesca Armosino, nata nel 1869 e morta nel 1871. Da ultimo vi fu la vicenda di Anita, nata il 5 maggio 1859 da un suo legame con Battistina Ravello, e da lui affidata all’amica Speranza von Schwartz, verso la quale ebbe a lungo parole di gratitudine, fino a quando, probabilmente insospettito, volle riavere la figlia con sé. La ragazza lo raggiunse a Frascati, accompagnata dal fratello Menotti, il 24 giugno 1875; gli apparve in buona salute ma: «con una carica di pidocchi, come non ho mai veduto creatura umana averne tanti» (G. Garibaldi, Lettere a Speranza von Schwartz, prefazione di N. Aspesi, Firenze, Passigli, 1982, p. 142). Per cause mai chiarite – si è parlato di una precedente febbre, di insolazione, di meningite – morì a Caprera il 25 agosto, a soli 16 anni e ad appena due mesi dal ricongiungimento con il padre.

Garibaldi diede grande importanza alle vaccinazioni fin dal suo soggiorno in America Latina, poiché dovette assistere a quella che ancora oggi è ricordata come la gran epidemia de viruela, scoppiata nel 1843 in Paraguay e allargatasi poi alle regioni circostanti, che si protrasse fino al 1845, e che fu probabilmente la causa della morte della sua prima Rosa.

Alla fine del 1847, considerato ormai concluso il suo impegno nella difesa di Montevideo, Garibaldi aveva già preso contatti e si stava organizzando per il rientro in Italia; decise quindi di far partire prima la sua famiglia, la moglie Anita con i figli Menotti, nato nel 1840, Teresita, nata nel 1845, e il piccolo Ricciotti, nato il 24 febbraio di quell’anno. In tanta concitazione non dimenticò di far vaccinare il più piccolo prima del lungo viaggio, chiedendone anche la certificazione. In un documento, che ho rintracciato nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Milano, sottoscritto da Juan Gutierres Moreno, allora amministratore generale della vaccinazione per lo Estado Oriental del Uruguay, datato 28 dicembre 1847, troviamo: «Certifico: haber vacunado al niño Ricciotti hico de Don Jose Garibaldi de edad de nueve meses el dia 4 de diciembre del año de 1847 teniendo buen resultado, y para que serva a los fines que convenga lo firmo en Montevideo a solicitud de sus padres el 22 de diciembre de 1847». Immaginando che gli altri figli fossero già stati vaccinati, visto che la pratica era comunque in vigore da numerosi anni, poteva rimandarli nel vecchio continente, difesi almeno dal vaiolo che era ancora uno dei principali flagelli del periodo.

La stessa sensibilità la ritroviamo ancora negli anni successivi. Sicuramente aveva fatto vaccinare la sua seconda Rosa, poiché ne parla all’amico, compagno d’armi e medico torinese, Timoteo Riboli, in una lettera del 29 giugno 1874 (G. Garibaldi, Scritti politici e militari, a cura di D. Ciampoli, Roma, E. Voghera, [1907], p. 680).

Il 23 aprile 1873 era poi nato il suo ultimo figlio, Manlio; il 10 marzo del 1874 scriveva a Riboli: «Manlio è splendido di salute, etc.; la madre dice: di non aver veduto mai un bambino simile. Io penso alla di lui vaccinazione e vi prego d’occuparvene» (G. Garibaldi, Scritti politici e militari cit. pp. 675-676). Che questa fosse per lui una vera preoccupazione lo prova una lettera di sette giorni dopo ad un altro amico medico, Enrico Albanese, direttore dell’ospedale di Palermo, al quale così si rivolgeva: «Io ho un bambino di 11 mesi che non fu vaccinato ancora. Ove vi compiaceste di visitarmi, vi prego di pensare a tale operazione-occorrenza di cui vi terrò a giorno io stesso prima della vostra venuta» (M. P. Orlando Albanese, Le relazioni di G. Garibaldi col patriota E. Albanese, in Rassegna storica del Risorgimento, a. XIX (1932), p. 345). Il 20 maggio il bambino non era stato ancora vaccinato, ma ringraziava Riboli per le informazioni che gli aveva mandato in merito (lettera conservata al Museo Centrale del Risorgimento, Roma, di seguito MCRR); al momento comunque non se ne fece nulla. Finalmente a luglio Albanese si recò a Caprera a visitare l’amico, e Garibaldi non perse l’occasione di far vaccinare il figlio, operazione che avvenne il 27 e di cui informò Riboli il giorno successivo.

Albanese, durante la visita a Caprera, raccontò all’amico del suo lavoro a Palermo, ed in particolare di quello svolto presso l’Ospizio marino che aveva fondato nel 1873, e che ancora oggi porta il suo nome. Garibaldi ne rimase colpito e il 5 agosto volle scrivere ai bambini che vi soggiornavano: «Il mio amico dottor Enrico Albanese m’ha raccontato qui, i fatti da voi compiuti per la salute e l’istruzione. Siccome la simpatica manifestazione vostra di patriotismo, e d’amore per la ragione e la scienza» (M. P. Orlando Albanese, cit. p. 252). Una frase in cui si condensa il modello educativo di Garibaldi, e che può essere ancora d’insegnamento: prima la salute, poi l’istruzione, la fiducia nella scienza e un po’ di patriottismo, senza mai dimenticare la fratellanza, poiché come ha scritto e sostenuto più volte: «l’uomo nasce uguale all’uomo».

*Docente di storia contemporanea all’Università di Perugia e studiosa di Garibaldi