E’ stato presentato in diverse città il libro curato da Zeffiro Ciuffoletti, Annita Garibaldi Jallet e Alberto Malfitano col titolo “I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento”. Della prima presentazione, tenuta a La Maddalena, abbiamo già dato notizia nel precedente fascicolo di Camicia Rossa. Qui si riporta quasi per intero l’intervento – ampio ed efficace – di Anna Maria Lazzarino Del Grosso in Palazzo Ducale a Genova e, di seguito, la sintesi delle presentazioni avvenute a Sassari, Tempio Pausania e Firenze.
Genova
Nel festeggiare qui, insieme,il 24 novembre l’uscita di questo ricchissimo volume dedicato alla terza generazione dei discendenti di Giuseppe e Anita Garibaldi non posso non ricordare con emozione il mio primo incontro con Annita Garibaldi Jallet, in questo stesso Palazzo Ducale, il 3 febbraio 2004, in occasione della Mostra itinerante, da lei ideata e allestita, dal titolo I Garibaldi dopo Garibaldi. I figli di Giuseppe e Anita tra mito e realtà. Pensata per celebrare il centenario della morte di due dei tre figli della mitica coppia, Menotti e Teresita, entrambi mancati nel 1903, e l’ottantesimo di quella di Ricciotti, avvenuta nel 1924, questa mostra aveva iniziato l’anno prima il suo lungo e fortunato percorso in tutta una serie di tappe italiane ed estere, a partire da Brasile e Uruguay. Proprio grazie al sostegno degli Istituti di Cultura Italiana di San Paolo e di Montevideo, oltre che dell’ANVRG, era uscito contestualmente un primo libretto dal titolo I Garibaldi dopo i Garibaldi, sapientemente illustrato e contenente la versione trilingue (italiano, spagnolo e portoghese) di una serie di brevi contributi a carattere divulgativo, tra i quali naturalmente uno di Annita. Ripercorrendo le avventurose tappe della vita della giovane famiglia Garibaldi tra Brasile, Uruguay e Italia in lotta per la propria emancipazione, vi si richiamava l’attenzione sul rapporto tra il mito dell’Eroe – che già in quegli anni ’40 dell’Ottocento iniziava a radicarsi nell’immaginario italiano e internazionale – e i destini dei figli di Giuseppe e Anita e della loro progenie; rapporto che trova il suo perno nel peculiarissimo fenomeno del “garibaldinismo”, nato con Garibaldi ma a lui sopravvissuto, sia pure con caratteri mutanti. Fu soprattutto Ricciotti, dopo la morte del padre, a farsene legatario, interprete e continuatore, vincolando al supremo dovere di continuarne la tradizione la propria numerosa discendenza maschile. Sintetici profili biografici di Teresita, Menotti e Ricciotti usciti dalla penna magistrale del compianto amico comune, prof. Arturo Colombo, concludevano la pubblicazione, chiaramente pensata come strumento per consentire la migliore fruizione della Mostra. Quest’ultima e quel piccolo accattivante libro, cui avevano contribuito studiosi di vaglia, dovevano ben presto rivelarsi la prima tappa di un fecondo progetto di più vasta portata, proseguito ininterrottamente per quasi un ventennio e approdato oggi, anche se certo non esaurito, al volume oggetto del nostro incontro.
Tra i frutti di quel progetto ricordo il corposo libro I Garibaldi dopo Garibaldi. La tradizione familiare e l’eredità politica, uscito nel 2005. Vi sono ricostruite in approfonditi saggi ad opera di diversi studiosi, le biografie di Menotti (Zeffiro Ciuffoletti), Teresita , (Annita Garibaldi Jallet), Ricciotti (Giuseppe Monsagrati), e di Stefano Canzio, sposo di Teresita (Emilio Costa), mentre nella seconda parte, intitolata “Nel labirinto del Novecento”, i contributi dedicati ai figli di Ricciotti: Bruno e Costante, martiri precoci della Grande Guerra, e alle figure contrapposte di Sante, che pagò con l’internamento nei campi di prigionia francesi e tedeschi, fino a morirne poco dopo la sua liberazione, la propria scelta e militanza antifascista e antinazista, ed Ezio, fascista della prima ora e sempre organico al regime che lo ha ampiamente beneficato, preludevano alle ben più ampie ricostruzioni biografiche contenute nel libro di cui oggi trattiamo, riguardanti i cinque figli maschi di Ricciotti e di Constance Hopcraft sopravvissuti al conflitto del 1914-18. Conflitto in cui tutti, senza eccezione, fecero onore alla memoria del grande Nonno e alla fama del padre, combattendo dapprima per la Francia e poi nell’Esercito italiano con valore ed atti eroici riconosciuti con promozioni e medaglie, come i saggi di Giuseppe Monsagrati su Peppino, di Andrea Spicciarelli su Ricciotti jr, di Federico Goddi su Menotti jr, di Matteo Stefanori su Sante, di Alberto Malfitano su Ezio evidenziano. Vi si aggiungono, nel saggio finale di Annita, contribuendo preziosamente a far luce sulle rispettive figure e sul complesso della “famiglia”, i profili, fino ad oggi ben poco noti o al tutto sconosciuti, delle loro spose, rimarcando nel titolo, in parallelo a quello bellico dei compagni, l’”ordinario eroismo” di queste donne dalla disparata provenienza, fatalmente e fedelmente coinvolte nel travagliato destino del Garibaldi che le aveva affascinate; un eroismo che rifulge in primo luogo nella figura di Costanza, la moglie inglese di Ricciotti, vero “Generale della Famiglia” secondo il modello femminile dell’età vittoriana. Il suo ritratto è specialmente ambientato sullo sfondo della casa di Riofreddo, oggi trasformata in Museo, in cui trascorse la prima infanzia parte della sua nidiata di fanciulli e fanciulle e cui dedicò tante solerti cure, sacrificandovi i propri beni personali. Sostegno imprescindibile del marito e perno dell’unità familiare dopo la sua morte, Costanza fu nei suoi impegni sempre sostenuta e da ultimo accudita dalle due figlie maggiori, Rosa e Annita Italia, sulle quali pure sono fornite molte notizie. A loro fu assegnato, e dovettero accettarlo, il non lieto destino di nubili “vestali” dei genitori e all’occorrenza dei fratelli, mentre alla “piccola” Giuseppina riuscirà di prendere il volo.
I diciassette anni trascorsi tra l’uscita del primo volume sulla discendenza di Garibaldi e di Anita e questo odierno contributo a più voci su quella di Ricciotti e Costanza Hopcraft non hanno certo significato una battuta d’arresto nelle ricerche e nella pubblicazione di nuove acquisizioni conoscitive, dovute in massima parte ad Annita Garibaldi. I suoi numerosi lavori in materia usciti in questo lasso di tempo, frutto di puntigliosi e difficili scandagli non solo nell’Archivio familiare custodito presso la Sezione ANVRG di Riofreddo, ma anche negli archivi dei tanti luoghi del mondo visitati o abitati dai fratelli Garibaldi, sono ampiamente citati in tutti i saggi che compongono il nostro libro.
L’elegante e illuminata introduzione di Eva Cecchinato al “nostro” libro, collegando fra loro i principali esiti delle originali e vaste ricerche che sorreggono i sette contributi che lo compongono, il cui imponente corredo di note dà la misura dello scavo da ciascun autore effettuato in termini di documentazione inedita e di letture bibliografiche, mette in luce tutte le criticità del peso che Ricciotti padre, a propria volta condizionato dal ruolo di erede morale del grande Condottiero di “camicie rosse” che quasi religiosamente ha assunto sulle proprie spalle, getta su quelle dei figli (e, in modo diverso, anche delle figlie) vincolandoli all’incarnare esemplarmente e secondo un modello rigidamente gerarchico, ancorato al diritto di primogenitura, la tradizione militare garibaldina. Il che significa accorrere come un sol uomo, ancorati al valore indiscutibile dell’“unità” della famiglia che ne ha la guida per missione “genetica”, alla chiamata alle armi del “Capo” (dopo Ricciotti, il primogenito Peppino), dovunque ci si trovi, abbandonando carriere lavorative e affetti. Un’unità però che già nel primo dopoguerra, con la precoce adesione di Ezio al nascente fascismo, mostra le sue crepe, destinate ad allargarsi nel corso del ventennio mussoliniano, e a divenire rottura insanabile con l’approssimarsi del secondo conflitto mondiale e delle scelte di campo conseguenti. Scelte che pongono Sante in collisione con il resto della famiglia all’epoca superstite, i cui componenti, chi più chi meno, erano ormai tutti compromessi col regime, se non altro per averne tratto sostentamento. L’amato fratello Menotti, il meno coinvolto nella “tradizione garibaldina”, pur avendo dato ottime prove di valore nel corso della Grande Guerra, era morto cinquantenne nel 1934; la sorella Giuseppina aveva a suo modo già rotto quell’unità trasferendosi nel primo dopoguerra negli Stati Uniti con il marito Giuseppe Ziluca, contrastando l’opposizione al matrimonio dei propri genitori. Una scelta, quella di Sante pagata a caro prezzo, da lui e dalla sua famiglia, ma compiuta in nome di quegli ideali di libertà, giustizia sociale e democrazia che il grande Avo aveva propagato con forza e incessantemente, con scritti e discorsi divenuti le sue armi principali dopo il raggiungimento dell’Unità e consegnate ai suoi seguaci ed estimatori in tutto il mondo.
Giustamente Cecchinato definisce “coraggioso” questo libro, non solo perché privo di intenti celebrativi, ma perché non arretra dinanzi alle verità più scomode riguardanti questo o quel membro della famiglia, si tratti dei dissesti finanziari a volte rovinosi, in cui a cominciare da quello che colpì Ricciotti padre sul finire degli anni ’80, qualcuno dei figli, in un contesto generale di seducente giungla speculativa, incautamente incappa. O anche, nello scottante caso di Ricciotti junior, di trattare con rigore scientifico e senza aperture a ipotesi innocentiste o anche solo ad attenuanti, poiché ad oggi non suffragate da prove storiche, la grave accusa a lui mossa di aver tradito per denaro, in Francia, nel 1925-26, i fuorusciti antifascisti che avevano aderito al piano promosso da Peppino di insurrezione armata “garibaldina” contro il regime mussoliniano ad opera di Legioni della libertà, da lui organizzate.
Il libro è coraggioso anche nel rivelare le ambiguità a lungo mantenute e i cedimenti finali di Peppino e Ricciotti nei confronti del regime fascista, potremmo dire anch’essi nel segno della formula “per necessità familiare” con cui veniva ironicamente sciolta la sigla della tessera P.N.F., che i più si piegavano a richiedere. A favorire l’adesione dei fratelli a Mussolini vediamo sempre attivo e solerte il più giovane Ezio. Ma anche il suo impegno fascista, che gli assicura prestigio, privilegi, influenza, controllo delle associazioni e iniziative culturali garibaldine pubblicamente riconosciute, e che gli fa ottenere benefici, immediati o tardivi, per i familiari che per necessità si adeguano (la madre, le sorelle maggiori, Peppino e Ricciotti che, dalla seconda metà degli anni ’20 in poi, pur mantenendo nel loro cuore avversità al regime e ideali repubblicani, sono e resteranno dei vinti), non manca di ambiguità, nella convinzione, che si rivelerà illusoria, di poter mantenere una propria “diversità” garibaldina ed esercitare un’influenza sulle scelte del regime, in particolare scongiurando l’alleanza con la Germania di Hitler e la conseguente deriva antisemita.
I saggi raccolti in questo libro mostrano chiaramente che non è la Grande Guerra, prima tragedia del Novecento, la sfida perduta dei Garibaldi, dai quali la guerra è invocata per l’Italia in nome di un Risorgimento ancora incompiuto e già in parte interpretato secondo spinte nazionalistiche. Tutti i fratelli, convenuti dalle diverse parti del mondo in cui giovanissimi hanno fecondamente impiantato, secondo inclinazioni e capacità e senza risparmio di energie, le loro esistenze, vi accorrono con entusiasmo, alla fine giustamente orgogliosi, pur nel dolore per la perdita dei due giovani eroi dell’Argonna, di aver contribuito alla vittoria. Pur senza poter indossare la camicia rossa la partecipazione garibaldina all’interno del 51° e 52° Reggimento della Brigata Alpi, dall’8 agosto 1917 sotto il comando di Peppino, rinverdisce la tradizione e i suoi allori. Il prestigio dei Garibaldi esce consolidato dal conflitto, i tanti reduci “garibaldini”, in Italia e in Francia, con le loro associazioni, fanno concretamente o idealmente capo a Peppino, o a Ricciotti, che ne è il braccio destro.
Ma è l’avvento del fascismo la grande sfida che sconvolge e determina le esistenze di per sé non facili dei figli maschi di Ricciotti senior e in conseguenza anche della parte femminile della famiglia, le cui figure e i cui spesso malinconici destini sono illuminati dall’intrigante saggio di Annita.
Mentre Ezio ottiene la tessera del PNF sembra già nel novembre 1922, assumendo nel 1925 la carica di sindaco di Riofreddo e l’anno dopo quella di Podestà, Peppino, Ricciotti e Sante nel 1923 aderiscono invece al movimento di “Italia libera” di Randolfo Pacciardi, prima organizzazione antifascista italiana, entrandone nel Comitato Centrale. Il 4 novembre 1924 Peppino e Sante partecipano in prima fila, a Roma, a una sfilata organizzata dalla stessa in occasione delle celebrazioni della Vittoria, che viene assalita e dispersa da squadracce fasciste. E’ l’evento che rende sospetti al regime tutti e tre i fratelli, il cui popolare cognome e il cui ascendente ancora forte nel paese, soprattutto con riguardo a Peppino, preoccupano personalmente Mussolini, che da quel momento li farà controllare e spiare dovunque si trovino. I chiari avvertimenti vessatori che vi fanno seguito, li spinge all’espatrio in Francia, dove Ricciotti già risiedeva dalla fine della guerra e dove Sante fisserà definitivamente la propria residenza e sede di lavoro. Peppino, fallito il piano di insurrezione garibaldina affidato all’organizzazione di Ricciotti, si sposterà nel giugno 1925 negli Stati Uniti, dove insieme alla amata moglie americana Madalyn condurrà, fino al suo ritorno in Italia nel febbraio del 1940, un’esistenza sempre più misera e sofferente.
Di fatto declina in questi anni, malgrado qualche altra fallita illusione, il sogno dei due fratelli maggiori di essere eredi privilegiati di una tradizione dalla quale Ezio e il fascismo li espropriano con ben altri mezzi, così come declina, si ingrigisce e alla fine si piega anche al rinnegamento dei propri ideali la loro vita.
Per Sante il fascismo è la ragione del suo esilio, che non avrebbe certo voluto: anche se nel primo dopoguerra aveva scelto di partecipare a lavori di ricostruzione nella Francia martoriata dalla guerra, il suo progetto era il ritorno in patria e a questo fine aveva avviato un’impresa edile in Romagna. Ma le misure persecutorie che colpirono questa sua attività non gli lasciarono scelta. La sua militanza attiva contro il fascismo e il nazismo inizia nel 1937, con la presidenza della Fédération des Associations des Garibaldiens de l’Argonne, des Combattants dans l’Armée Française e Sympathisants Garibaldiens e con la creazione del periodico “Le Garibaldien”. Nel 1938-39 il precipitare degli eventi imprime una nuova forza al suo attivismo antifascista e antinazista. Entra in contatto con gruppi di “France Combattante” operanti nella provincia di Bordeaux e anche con emissari dei servizi militari britannici e delle forze alleate, offrendo informazioni segrete all’Intelligence Service britannico. Sul suo capo nel 1942 è spiccato un mandato di cattura emesso dalle autorità italiane. Il 24 giugno 1943 viene arrestato dalla Gestapo, nella sua casa di Bordeaux, con l’accusa di spionaggio. Rilasciato il 10 agosto, prosegue il suo impegno clandestino e in settembre è nuovamente recluso, questa volta nel campo di concentramento di Compiègne, da dove, dopo una serie di dolorose peregrinazioni in altri campi tedeschi, approda a Dachau, nel settembre 1944, uscendone il 24 aprile 1945 ormai gravemente malato. Raggiunta Roma, dà vita a un nuovo progetto politico in linea con la sua idea di tradizione garibaldina democratica, il Movimento Garibaldino Antifascista d’Italia (GAPI), scrivendone il programma in un opuscolo dal titolo Autogoverno del popolo, un programma che, all’insegna delle due parole d’ordine “Patria” e “Ricostruzione”, auspicava un ‘Unione Latina con la Francia all’interno di un progetto di Federazione europea con l’Inghilterra, la Germania post-nazista e le popolazioni slave. Poté ritornare in Francia solo alla fine del 1945, dove morì il 4 luglio 1946. Il Governo francese gli conferirà, alla memoria, la Croce di Commendatore della Legion d’Onore.
La missione di continuare la tradizione garibaldina, come si vede dall’ultimo tratto della sua vita, in lui era rimasta ben viva, ma tra i fratelli superstiti della Grande Guerra fu il solo capace di consegnarla ancora luminosa a un futuro di libertà, democrazia e di pace continentale, in piena aderenza agli ideali del suo primo iniziatore.
Il saggio di Annita cita anche i nati da questa terza generazione discesa da Giuseppe e Anita tramite il figlio Ricciotti. Pochi, rispetto alla numerosità della prole di Ricciotti e Costanza. Vi fu discendenza solo da Sante e Beatrice Borzatti, genitori di Annita, da Ezio, che ebbe Anita dalla prima moglie americana Hope, e Giuseppe e Vittoria dalla seconda, la tedesca Erika Knopp, mentre negli Stati Uniti, ma con cognome Ziluca, nacquero da Giuseppina Paul e Anthony.
Mi piacerebbe che il prossimo libro da presentare fosse un lavoro autobiografico o memorialistico di Annita, punta di diamante della quarta generazione e della tradizione garibaldina reinterpretata in tempo di pace e di costruzione di quell’unione dell’Europa che già il Bisnonno indicava come obiettivo da perseguire e cui il padre Sante guardò come a una meta raggiungibile e per cui operare dopo il ritorno dell’Italia e della Germania alla libertà.
Anna Maria Lazzarino Del Grosso
SASSARI
Lo scorso primo dicembre si è tenuta a Sassari, nella sede dell’associazione “50&più” la presentazione del libro “I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento”. Sono intervenuti il vice presidente nazionale Sebastiano Casu, la presidente del gruppo sassarese Gavinuccia Solinas (che ha anche coordinato l’incontro) e lo storico Giuseppe Zichi che ha commentato il volume. Era presente anche Annita Garibaldi Jallet, curatrice dell’opera assieme ad Alberto Malfitano e a Zeffiro Ciuffoletti, che ha chiuso la serata alla presenza di molti soci dell’associazione.
La presentazione, che ha visto anche un’attiva partecipazione dell’uditorio, ha offerto a Giuseppe Zichi l’occasione per rileggere le pagine del volume (che si sofferma sulla terza generazione della famiglia Garibaldi), cercando di cogliere attraverso le vicende pubbliche e personali dei personaggi più rappresentativi come è andato trasformandosi il messaggio garibaldino nel tempo: sia attraverso le vicende dei discendenti di Giuseppe Garibaldi, sia attraverso l’operato di chi a livello politico ne contendeva il primato. Le storie che in queste pagine si vogliono ricostruire coprono un periodo abbastanza ampio della storia contemporanea che si snoda dall’età liberale fino al secondo dopoguerra. I Garibaldi della terza generazione sono stati degli attori importanti di questo periodo, con le loro luci e le loro ombre, e con le diverse sensibilità che ne contraddistinguono il carattere, traghettando verso un’era nuova il lascito ideologico del loro illustre antenato.
Giuseppe Zichi
Tempio Pausania
Il 6 dicembre 2022 a Tempio Pausania (SS), nella Sala “Manlio Brigaglia” del Palazzo degli Scolopi, si è parlato della “Tradizione garibaldina nel ‘900”. L’occasione è stata una lezione dell’Università della terza età, cui hanno partecipato Annita Garibaldi Jallet, Paolo Lisca, docente del liceo “Dettori” di Tempio, e Antonello Tedde, presidente della sezione Anvrg di La Maddalena. La lezione è stata un pretesto per illustrare il recente libro curato da Annita Garibaldi, “I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento”.
Nella sua relazione, Paolo Lisca ha voluto evidenziare come, nella dimensione pubblica e in quella privata, i destini dei discendenti dell’Eroe si siano inevitabilmente intrecciati, dando vita a dinamiche forti e decisive nell’ambito di quella che è stata la linea di preservazione della tradizione garibaldina. In effetti chi non ha mai provato la curiosità di conoscere quali siano state le vicende che hanno interessato i discendenti di Giuseppe Garibaldi? Molti trovano interessante sapere se si sono mossi nel solco della tradizione garibaldina, militaresca, rivoluzionaria, tesa a combattere ogni forma di ingiustizia e sopruso, oppure se ne hanno preso le distanze, dedicandosi ad attività più “borghesi” e allontanandosi dunque dalla pesante eredità ideologica dell’illustre progenitore. Sull’argomento sono stati pubblicati due libri, a distanza di 17 anni l’uno dall’altro. Entrambi i volumi portano lo stesso titolo, “I Garibaldi dopo Garibaldi”, facile intuire che, con significativi aggiornamenti e annotazioni, il secondo costituisca in qualche modo la prosecuzione del primo. Quest’ultimo, sulla terza generazione, è stato definito un libro coraggioso perché non fa sconti a nessuno, squarcia il velo della retorica celebrativa e ci presenta i Garibaldi sia nelle loro azioni meritorie sia anche, come esige la verità storica, in quelle più discutibili. Certamente la tradizione garibaldina è declinata anche al femminile nelle figure della moglie e delle figlie di Ricciotti, un esempio di “ordinario eroismo”, come le definisce Annita Garibaldi Jallet nel suo bel saggio contenuto nel volume. Niente rende meglio quel sacrificio dell’impegno quotidiano che ha condotto le donne Garibaldi ad accettare gli onori ma anche gli oneri derivati dal possesso di un cognome così particolare. Ciò che colpisce in questa vicenda è l’impulso da parte di tutti a dimostrarsi all’altezza del nonno, sia impegnandosi come volontari nelle imprese militari, indossando l’inconfondibile ed emblematica camicia rossa, sia reclamando un ruolo pubblico di primo piano in forza della loro discendenza.
Non doveva essere facile per i discendenti provare a eguagliare Giuseppe Garibaldi, essere all’altezza di un cognome così importante, trasferire i suoi valori nel secolo successivo, così lontano dalle fascinazioni romantiche, così immerso in un duro presente fatto di scontri imperialistici e contese ideologiche. Certo occorreva, per così dire, aggiornare ai nuovi tempi i contenuti del messaggio politico di cui si sentivano portatori. E i nuovi tempi erano quelli dell’avvento e del consolidamento del regime fascista, con il quale tutti dovettero confrontarsi: chi, come Peppino, mostrando un atteggiamento ondivago fra l’ostilità e il compromesso; chi, come Ricciotti, compromettendosi maggiormente con azioni poco trasparenti; chi infine, come Ezio, aderendo totalmente al fascismo fin dalla prima ora. Appare più coerente con la tradizione garibaldina, nella chiara intenzione di non svenderla a differenza degli altri fratelli, l’atteggiamento tenuto da Sante; ma la sua genuinità nel salvaguardare i valori fondamentali dei Garibaldi gli costerà cara: sofferenze e sacrifici personali, l’ostilità dei fratelli, l’arresto da parte della Gestapo, la detenzione nei campi di concentramento.
Paolo Lisca
Firenze
Il 15 febbraio nella Sala di Firenze Capitale di Palazzo Vecchio è stato presentato il libro “I Garibaldi dopo Garibaldi”, alla presenza di un folto pubblico. L’iniziativa era organizzata dal Comitato fiorentino del Risorgimento con la collaborazione della Sezione ANVRG di Firenze.
Dopo i saluti del Presidente del Consiglio Comunale, Luca Milani, hanno parlato Alessandra Campagnano (Comitato Fiorentino Risorgimento), coordinatrice dell’incontro, Gabriele Paolini (docente all’Università degli studi di Firenze – direttore del Comitato di Livorno dell’ISRI). Erano presenti, e sono intervenuti, i curatori dell’opera, Zeffiro Ciuffoletti, Annita Garibaldi Jallet, Alberto Malfitano.
Affrontare le vicende dei nipoti di Giuseppe Garibaldi, che hanno dato vita al volume “I Garibaldi dopo Garibaldi. La terza generazione e le sfide del Novecento” (Le Lettere), ha significato tentare di rispondere a una domanda precisa: come il peso di un tale nome abbia influito sulle esistenze dei figli e delle figlie di Ricciotti, il secondogenito dell’Eroe e il più interessato a tenere alto la tradizione che era stata incarnata dal padre, simbolo di lotta disinteressata e generosa per la libertà dei popoli contro le dominazioni straniere i poteri dispotici.
L’interesse della ricerca sta, quindi, proprio in questo dilemma: come gli eredi di sangue del Generale siano o meno riusciti a portare avanti quell’enorme bagaglio di ideali legato al proprio avo in un contesto completamente mutato rispetto a prima, attraversato dalle lotte tra diversi imperialismi e da acerrime contese ideologiche. Mentre le figlie femmine furono destinate a un ruolo subordinato di vestali della tradizione di famiglia, i cinque figli maschi di Ricciotti svolsero un compito di apprendistato che comportò la partecipazione a lotte come quella greca contro l’impero ottomano e, in generale, a farsi protagonisti di un ruolo pubblico che resse fino alla Grande guerra: la campagna delle Argonne in difesa della Francia, nella guerra contro la Germania, costituì il momento più elevato del compito che i fratelli Garibaldi si erano dati e un esempio fulgido – quanto drammatico, a causa della morte di Bruno e Costante – per i democratici italiani, che volevano l’intervento ma si sarebbero trovati a disagio a combattere sotto la monarchia sabauda.
L’arruolamento nell’esercito italiano, nel giugno 1915, non fu che il naturale sbocco dell’impresa di Francia. Ma è dopo il conflitto che l’unione familiare va in pezzi, sotto il peso delle rinnovate tensioni politiche e dei nuovi modelli autoritari che si impongono. I fratelli prendono allora strade differenti, tra l’incapacità di Peppino di assurgere realmente al ruolo di capofamiglia riconosciuto, quello ambiguo di Ricciotti jr, coinvolto in oscuri scandali e doppiogiochismi, quello defilato di Menotti jr, quelli antitetici di Ezio, da una parte, che aderì al fascismo, e di Sante dall’altra, che intraprese in Francia la carriera di costruttore ma si schierò ben presto su posizioni antifasciste, pagando poi duramente la sua scelta coraggiosa con la deportazione a Dachau, durante la guerra: nulla di più emblematico della fine di quella unità familiare che era stata tenacemente voluta dal loro padre, ma che non aveva potuto resistere davanti alle sfide del Novecento, alle pressioni enormi e alle opportunità che i fratelli Garibaldi si trovarono a fronteggiare”.
Alberto Malfitano