di Sebastiano Alfio Chiarenza*
In tutti coloro che si cimentano a ricostruire il proprio albero genealogico si cela il desiderio inconfessato di trovare tra i propri avi personaggi illustri a tal punto da lasciare una traccia indelebile nella storia della propria città e, perché no, della propria nazione.
La storia che mi accingo a narrare non è però tutto questo. Se è vero che la stessa non è il solo racconto dell’epopea di pochi grandi, ma della lotta di interi popoli… be’ allora questa è la storia che mi accingo a narrare. E’ il racconto di un giovane siciliano, uno dei tanti (per fortuna) che non esitarono, in quel lontano 1860, a scegliere di non essere solo spettatori del grande evento che fu l’unità d’Italia, ma di concorrere a realizzarlo tra le incertezze e il rischio di morire in combattimento o peggio di finire impiccato dai Borboni. E’ sì, perché i “Borboni” non sono quelli che certa pubblicità commerciale ammiccante ci propone oggi come dei simpatici personaggi in una sorta di “revisionismo soft”. I Borboni di Napoli furono, tra i regnanti della penisola pre-unitaria, quelli più conservatori e anti liberali che non esitarono a reprimere nel sangue ogni richiesta di maggiore libertà da parte dei propri sudditi.
Giovanni Sciuto, che i racconti di mia nonna (Maria Agata Cusmano – Catania 1908 – Acireale 1991) hanno salvato dall’oblio e dalla conseguente perdita della “memoria” alla morte della stessa, era un giovane studente catanese di famiglia medio borghese del ceto impiegatizio. Sapeva quindi leggere e scrivere… e non solo! Possedeva i “virgulti” della libertà.
Essendo di animo liberale, il 31 maggio 1860, quasi all’indomani dello sbarco dei Mille di Garibaldi a Marsala (11 maggio 1860), partecipò all’insurrezione di Catania contro l’esercito borbonico in una prosecuzione ideale di quell’anelito di libertà che furono i moti siciliani del 1821 ferocemente repressi da Ferdinando II di Borbone, giustamente soprannominato dai siciliani, che nulla perdonano, il “Re Bomba”.
Lo troviamo per le strade e le piazze di Catania, dove le squadre popolari male armate, guidate dal Colonnello Giuseppe Poulet, tengono coraggiosamente testa, per ben sette ore, a oltre duemila soldati borbonici, comandati dal Generale Clary i quali, barricatisi nella piazza dell’Università, sono poi costretti ad abbandonare la città ormai in mano ai rivoltosi. Sono i giorni di “Peppa la Cannoniera”, al secolo Giuseppa Bolognara Calcagno, così soprannominata perché durante i combattimenti del 31 maggio 1860 a Ogninella (quartiere di Catania) riuscì ad impadronirsi di un cannone del nemico e ad utilizzarlo contro lo stesso causandogli gravi perdite, partecipando così alla cacciata delle truppe regie dalla città etnea (3 giugno 1860). Nella città di Catania viene immediatamente costituita la “Guardia Nazionale” con compiti di presidio delle istituzioni libere appena create. Ma al giovane Giovanni Sciuto di farne parte non basta… egli vuole continuare la lotta e contribuire alla nascita d’Italia, ideale che perseguirà completamente con l’arruolamento tra le file dei “cacciatori dell’Etna”, come furono chiamati inizialmente i “garibaldini siciliani”, per poi confluire tra quelli che formarono la Brigata comandata dal Generale Eber con i quali risalì l’isola passando per Acireale, Giarre, Giardini e, infine, Messina da dove, di notte, si imbarcò con il suo reparto da “Torre del Faro” (Capo Peloro) per raggiungere la Calabria sfuggendo, quasi per miracolo, alle cannonate dei vascelli borbonici che pattugliavano lo “stretto”.
Lo troviamo poi combattente, il 1° ottobre 1860, nella celeberrima “battaglia del Volturno”, sempre inquadrato tra gli uomini della “Brigata garibaldina Eber” (Archivio di Stato di Torino – atti esercito meridionale). Dopo il congedo da “garibaldino” del cosiddetto “Esercito Meridionale”, transiterà (d’autorità?) nel neo costituito “Esercito Italiano” all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia (1861) come testimonia una lettera dello Sciuto, oramai “sergente – scrivano” di stanza a Torino, indirizzata, il 9 agosto 1861, al Generale Nicola Fabrizi (già generale garibaldino). In questa lettera Giovanni Sciuto si “raccomanda” al suo vecchio generale, in procinto di essere trasferito a Napoli presso il Generale Cialdini, rivolgendosi a lui come “…mio secondo padre…” chiedendogli “… di scrivere al signor Colonnello Politi, in servizio al Ministero della Guerra, al fine di poter ottenere anch’esso il trasferimento a Napoli, sotto “ i suoi Comandi”, da Torino, dove attualmente si trova , quale “scrivano” dello Stato Maggiore” dei volontari italiani sotto il comando del Generale Sirtori (altro famoso generale garibaldino – cfr. Roma, Museo Centrale del Risorgimento – Fascicolo Generale Nicola Fabrizi – busta 526/68 ).
Giovanni Sciuto si congeda dall’Esercito italiano circa vent’anni dopo il suo arruolamento, facendo ritorno nella sua Catania dove, sposatosi con Giovanna Meli, si dedica, non trovando di meglio, al lavoro di “ebanista”. Nel 1882 diventa padre di Caterina Sciuto (Catania 1882 -1967), madre di mia nonna, Maria Agata Cusmano. Muore nella sua adorata Catania nel 1927 presso l’ospedale che ancora oggi, rinnovato, porta il nome del suo amato eroe: Giuseppe Garibaldi.
*Presidente della Sezione di Viterbo-Vetralla dell’ANVRG