La passione di Garibaldi per la storia antica Silvio Pozzani

Numerose testimonianze attestano in Giuseppe Garibaldi una vera e propria passione per la Storia Antica, greca e romana, da lui coltivata, da autodidatta in gran parte, non avendo egli potuto frequentare, se non lacunosamente, corsi di scuola regolari.
Del resto, in Europa, da secoli, nella pedagogia in uso, i riferimenti esemplari all’antichità classica, supportati o meno dallo studio del latino e del greco, erano di basilare importanza ed erano stati “riscoperti” dalla nuova classe dirigente di Francia, i “nuovi antichi” della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico, sull’onda del neoclassico “sentire”.
Anche a Nizza, la città natale dell’Eroe.
Giovanni Battista Cuneo nella prima biografia di Garibaldi (1850), pur ribadendo la preponderante vocazione marinara del Nizzardo, asseriva anche che: “Dato naturalmente allo studio, alla pratica che andava facendo degli uomini accoppiava pure lo insegnamento dei libri.” Non dovettero essere granché gli insegnamenti ricevuti dai due sacerdoti che gli fecero,nella sua fanciullezza, da maestri; egli solo ricordava il maestro laico,Arena,con “cara rimembranza”1;“al terzo laico istitutore, il signor Arena, io devo il poco che so, e sempre conserverò di lui cara rimembranza soprattutto per avermi iniziato nella lingua patria e nella storia romana.”; così pure imparò un po’ di latino, prima del greco antico (e moderno) appreso poi a Costantinopoli, durante il soggiorno forzato cui fu costretto per malattia e vicende belliche russo – turche, negli anni 1828 – 18292.
Forse il maestro Arena è quello raffigurato in incisione da Edoardo Matania, in una celebre tavola che, con tante altre, illustrava il volume di Jessie White Mario, Garibaldi e i suoi tempi, pubblicato da Treves nel 1884. Nella scena, il maestro – forse un antico soldato di Napoleone – legge ad alta voce – forse dell’antica Roma – e accompagna con la destra il suo dire; Garibaldi giovinetto, in piedi, vestito alla marinara, tutto preso ad ascoltare, stringe in mano un fucile, mentre una spada sguainata è sulla sedia davanti a lui e il tavolo, a cui si appoggia, reca, spiegata, una carta d’Italia.
La storia di Roma, appresa forse in quei primi tempi,
si associò alla profonda impressione che egli ricevette dalla prima visita dell’Urbe effettivamente avvenuta, nel 1825, in compagnia del padre suo, Domenico; non fu solo la Città Sacra e Pontificia, nell’Anno Giubilare, a commuoverlo, ma quella delle vestigia della passata, universale grandezza, solo più tardi proiettata sull’Italia futura, come scrisse nella redazione definitiva delle sue Memorie (1872): “La Roma ch’io scorgeva nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire, Roma di cui giammai ho disperato naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste america
ne! La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! Idea dominatrice di quanto potevano ispirare il presente e il passato, siccome dell’intiera mia vita…Infine Roma per me è l’Italia…Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate.”
L’affiliazione di Garibaldi alla Giovine Italia di Mazzini è da collocarsi nel 1833, con o senza l’incontro fra il Genovese e il Nizzardo consacrato dall’iconografia risorgimentale in tavole famose; la tradizione attribuisce a Giovanni Battista Cuneo, patriota di Oneglia, il merito di aver introdotto il
marinaio di Nizza nella Giovine Italia, a Taganrog, sul Mar d’Azov; il Credente (così l’Eroe indica il Cuneo nei suoi ricordi autobiografici) avrebbe rivelato al giovane che l’aveva ascoltato, in una taverna di marinai, il programma mazziniano: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana e glielo avrebbe poi fatto giurare.
Probabilmente Garibaldi, promosso Capitano Marittimo di 2° Classe nel 1832, aveva già maturato un animo disposto ad aprirsi al nuovo messaggio che veniva da Mazzini e chiamava alla riscossa la gioventù italiana. L’adempimento dei prescritti obblighi di leva impose al giovane Garibaldi l’arruolamento nella Regia Marina Sarda: vi entrò con un nome di battaglia – come era previsto dalla legge – che era un chiaro richiamo alla storia antica da lui tanto amata: Cleombroto, quello di un Re di Sparta, che doveva aver memorizzato dalla lettura delle vicende dell’antica Grecia in qualche libro di storia.
La presenza nei ranghi della Marina coincise con la propaganda delle idee della Giovine Italia, in cui Garibaldi trovò un fedele collaboratore in Edoardo Mutru, destinato a essergli compagno nei combattimenti dell’esilio sudamericano nel Rio Grande e – purtroppo – anche a perirvi; coincise anche con l’incarico ricevuto di far insorgere Genova, in concomitanza con la spedizione mazziniana in Savoia, duplice tentativo concepito per riscattare la Giovine Italia dagli insuccessi che avevano tragicamente connotato il 1833; ma che ebbe sorte identica nella città della Lanterna: il 4 febbraio 1834, Garibaldi e Mutru, rimasti soli, furono costretti alla fuga, inseguiti da una condanna a morte in contumacia.
Di lì a poco iniziava per il futuro Condottiero il primo esilio: dalla Francia, dove aveva trovato rifugio, al Sudamerica per circa quattordici anni, fino al 1848, l’“anno dei portenti”; e del suo ritorno in Italia3 segnato da una prima Campagna contro gli Austriaci in Lombardia.
Nel 1849, partecipava, come componente dell’Assemblea Costituente, alla proclamazione, il 9 febbraio, della Repubblica Romana; e il suo pensiero subito correva a rievocare l’antica: “Ora assistevo alla rinascita del gigante delle repubbliche, la romana! Sul teatro delle maggiori grandezze del mondo! Nell’Urbe!…Quivi, liberamente, nell’aula stessa dove si adunavano i vecchi tribuni della Roma dei Grandi, eravamo adunati noi, non indegni forse degli antichi padri nostri, se presieduti dal genio ch’essi ebbero la fortuna di conoscere ed acclamare sommo! E la fatidica voce di Repubblica risonava nell’augusto recinto come nel dì che ne furono cacciati i re per sempre!” (Memorie).
Alla gloria conseguita nel ‘49, nella difesa di Roma, seguivano le peregrinazioni del cosiddetto “secondo esilio”, in cui il Generale, ormai famoso, fu costretto, per vivere e per mantenere se stesso e i suoi figli, a riprendere l’antica professione di Capitano Marittimo, toccando, per lunghi anni, lontani porti. E alla fine del cosiddetto “decennio di preparazione” (1849 – 1859), tornato in Italia, lo attendevano il Comando dei Cacciatori delle Alpi e le vittorie del ‘59 e quelle dell’impresa dei Mille nel 1860.
Ed ecco tornare, in occasione della grande vittoria garibaldina del Volturno (1 – 2 ottobre 1860), gli accenti rievocatori della storia di Grecia e di Roma: “Da Annibale, vincitore delle superbe legioni, ai giorni nostri, le campagne campane, non avean certo veduto più fiero conflitto, ed il bifolco, passando l’aratro su quelle zolle ubertose, urterà, per molto tempo ancora, nei teschi dalla rabbia umana seminati”, scriverà il condottiero (Memorie); ribaditi nella rievocazione dell’episodio di Castel Morrone, la posizione tenuta nella battaglia dalle Camicie rosse fino all’estremo sacrificio: 280 garibaldini contro migliaia di borbonici. Alla fine, la strenua resistenza, anche alla baionetta, consentirà di far chiudere vittoriosamente a Garibaldi la durissima giornata; cadono i bravi, il Maggiore Pilade Bronzetti a capo della schiera (come il fratello Narciso l’anno precedente); e gli eroici difensori indurranno il Generale a rammentare i Trecento Spartani di Leonida alle Termopili e i Trecento Fabi di Roma contro
CAMICIA ROSSA
Veio: “A Castel Morrone, Bronzetti, emulo degno del fratello, alla testa di un pugno di cacciatori ripeteva uno di quei fatti che la storia porrà certamente accanto ai combattimenti di Leonida e dei Fabi”, ricorderà qualche giorno dopo4.
Il richiamo alla romanità antica divenne obbligato dopo il 1861, con il riproporsi, anzi, con il fiammeggiare della “Questione Romana”, che il movimento garibaldino avrebbe voluto risolvere alla radice, con un intervento armato, ostacolato però dal neonato Regno d’Italia, che temeva così compromessi i rapporti dell’Italia dei Savoia con la Francia napoleonica, da lungo tempo protettrice, armata manu, di quanto ancora sopravviveva dello Stato Pontificio.
Di qui il ferimento di Garibaldi ad Aspromonte (29 agosto 1862) e i conseguenti rigori repressivi volti a stroncare ulteriori tentativi delle camicie rosse di prendere l’Urbe con le armi.Puntualmente ripresi, dopo la parentesi della Terza Guerra d’Indipendenza e la vittoria garibaldina di Bezzecca (21 luglio 1866), erano culminati, il 3 novembre 1867, a Mentana, con i garibaldini già vincitori della giornata, costretti a ripiegare sotto il fuoco dei nuovi fucili chassepots del Corpo di Spedizione francese, da poco risbarcato a Civitavecchia.
Già in vista di Roma, il ligure Anton Giulio Barrili così riferisce del Generale e della storia antica in alcuni momenti del suo libro di memorie in cui rievoca (1895) la sua partecipazione alla spedizione garibaldina con felici accenti: “Mentre io sto contemplando quello spettacolo così nuovo per me, una mano mi si posa sulla spalla; e subito dopo una voce dolcissima, che ben riconosco, mi dice:
Sapete dove siamo?
No, Generale, vedo questi luoghi per la prima volta.
Siamo sul monte Sacro.
Ah! esclamai – Per monte, tuttavia, è un po’ basso.
Agli occhi del capo, ve lo concedo; non già a quelli della storia. Qui il senatore Menenio Agrippa raccontò la sua favola dello stomaco e delle membra ribellate, persuadendo la plebe ammutinata a ritornare in città. Qui, secondo alcuni, e non sulla strada Latina, Manlio Coriolano si accampò con i suoi Volsci, e vinto dalle preghiere della madre Veturia levò l’assedio dalla sua patria.”5.
Fallita l’insurrezione romana, il corpo garibaldino ritornava a Monterotondo, per riorganizzarsi; così ancora il Barrili: “Garibaldi è di buon umore, ho detto; confida ancora. Tre giorni prima aveva settemila uomini; non ne ha più che cinquemila, oggi; ma saranno tutti buoni?… Si squaglieranno a poco a poco, dice un pessimista.
Ebbene, conchiuse Garibaldi, quando saremo in trecento, faremo come Leonìda. Egli pronunziava Leonìda, con l’accento sulla penultima.
L’ho già notato altrove, ed ho anche aggiunto: L’Eroe di Sparta avrebbe amato udirsi chiamare in quella forma da lui. Chi sa? Ora, nel regno delle ombre, o delle luci, ragionano insieme, dopo uno di quei baci elisii, intravveduti dal genio di Dante. Aggiungo ora, per confessione della nostra miseria, che se egli era capace di fare come Leonida, ci sarebbero voluti trecento Spartani, e risoluti al sacrificio, per fargli compagnia. Ma la storia non si ripete” (Barrili).
D’altronde già sotto le mura dell’Urbe, lo scrittore aveva registrato, anche nella quotidiana necessità, la familiarità del condottiero con la classicità: “Egli accettò in quella vece di sedersi e di far colazione, finalmente alle due dopo il meriggio, mangiando un pezzo d’arrosto freddo, rilievo di pranzo o di cena del giorno antecedente, rinvoltato in una pagina del piccolo Movimento di Genova.
Ne volete? diss’egli a me – Senza complimenti. No, grazie, generale; non ho pane.Ah, già! soggiunse egli, ridendo. Volete sempre
il pane, voi altri. In America non ne vedevamo quasi mai, e c’eravamo abituati benissimo. Ogni legionario portava il suo spicchio di carne infilzato sulla baionetta, e se lo sgranava senza aiuto di pane.
In America, si; replicai. Ma noi siamo in Italia, e nel Lazio.
Che cosa vuol dire? Che Cerere è dea latina. Egli mi aveva dato tre ore prima un cenno classico;
io gliene davo un altro, che parve averlo vinto.Avete ragione; conchiuse. E mangiò tuttavia senza pane il suo spicchio di carne rifredda” (Barrili).L’eco di quei forti fatti del 1867, compiuti per la redenzione di Roma, non s’era ancor spento quando, nel 1880, Felice Cavallotti, garibaldino, poeta e deputato al Parlamento italiano, compose per l’inaugurazione del monumento milanese ai caduti di Mentana, i versi famosi della Marcia di Leonida; vi si rappresentava l’eroe delle Termopili, notturnamente risorto e alla ricerca di un luogo dove posare il capo, prode fra i prodi defunti di tutti i tempi; dopo molti inviti ricevuti e relativi dinieghi, fermava finalmente il passo suo:
“Ed al gran Tebro va: Sul colle di Mentana, già in vista di San Pietro,Ritto, all’enorme clipeo fiero s’appoggia e sta. Sorge modesta un’ara: e sull’ala dei venti.
S’odono voci fioche per la notte salir:Noi pur pugnammo in cinque contro venti,E non fu indarno, o patria, né il sangue, né il morir! A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno: Non i felici oroscopi, ma il pallido dover:…L’alme donammo al fato, non bugiarde parole, Dall’ombra degli avelli guardando all’avvenir!… L’ombra, inchinando l’asta, grida: Stanotte vuole Coi morti di Mentana Leonida dormir!”6.
L’immaginario garibaldino così congiungeva e sovrapponeva l’Ellade antica e l’antica Roma: dietro i “nuovi” italiani, c’erano gli antichi Romani; un retaggio che riscontriamo ribadito già nei versi del cosiddetto Inno di Garibaldi, che Luigi Mercantini compose nel 1858:
“La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi ritorni qual era la terra dell’armi!… Bastone tedescol’Italia non doma,
non crescono al giogo le stirpi di Roma.”7

1 G. GARIBALDI, Memorie autobiografiche, a c. di G. SPADOLINI, Firenze, Giunti reprint, 1982, [ma Firenze, Barbera, 1920], p. 8.
2 S. POZZANI, Garibaldi e la Grecia moderna, Estratto dalla Rivista “Il Risorgimento”, a XXXIV, n, 3 – Milano, ottobre 1982, p. 223; A. GARIBALDI JALLET, Gli anni di Costantinopoli nella vita del Giovane Garibaldi, in “Camicia Rossa”, a. XXVII, n. 1, gen. mar. 2007, pp. 12 – 15.
3 Per uno sguardo d’insieme, cfr. I. BORIS, Gli anni di Garibaldi in Sud America 1836 – 1848, Milano, Longanesi, 1970.
4 M. MENGHINI, La spedizione garibaldina di Sicilia e di Napoli nei proclami, nelle corrispondenze, nei diarii e nelle illustrazioni del tempo, Torino, STEN, 1907, p. 358.
5 A. G. BARRILI, Con Garibaldi alle porte di Roma 1867. Ricordi e note, Milano, Treves, 1926, p. 225.
6 A. SABA (a cura di), Poesie del risorgimento, Milano, Edizione de “Il giardino di Esculapio”, 1959, p. 109.
7 L. MERCANTINI, Inno di Garibaldi, in P. GORI (a cura di), Il Canzoniere Nazionale 1814 – 1870, Firenze, Salani, pp. 355 – 356.