La vita di Guelfo Guelfi, sapientemente ricostruita in questo lavoro di Michele Finelli (attuale presidente nazionale dell’AMI), rappresenta il paradigma di quei numerosi italiani di buona volontà che nel corso dell’Ottocento, animati da profondi valori risorgimentali presto tradotti in fatti, hanno permesso lo sviluppo civile, economico e morale di comunità remote, lontane dai grandi centri. Grazie a uomini come lui, la nostra Penisola ha potuto prima sollevarsi sulla strada dell’indipendenza, e poi progredire enormemente in campo economico e amministrativo. Il contributo che egli ha dato alla crescita economica e culturale della comunità cui è appartenuto e l’applicazione concreta di una politica sociale al contempo liberale e solidale, sono il frutto sia della sua scelta morale di servire l’interesse generale, idea molto poco nota alle classi dirigenti attuali, sia della sua innata sensibilità alle istanze di crescita economica e sociale delle classi meno abbienti. Un esempio perciò di quel pragmatismo etico che ha caratterizzato alcuni dei protagonisti del risorgimento italiano.
Guelfo Guelfi decide di stabilirsi a Lajatico, un paesino di nemmeno 2.500 abitanti a metà tra Volterra e Pontedera, privo di collegamenti decenti e basato su un’economia di sussistenza. Proveniente da una famiglia democratica, (il padre Angiolo nell’abitazione di Scarlino ospitò Garibaldi di passaggio nel 1849) negli anni universitari maturò la sua coscienza politica patriottica, e nel paese esercitò la professione di medico condotto. L’impegno di Guelfi all’interno della comunità si concretizzò oltre che attraverso il suo lavoro, anche nella vita associativa. Nel 1868 fondò una “scuola serale e festiva per adulti” andando a colmare un grande vuoto esistente fino ad allora. L’anno successivo si integrò nella “Società per l’Educazione del Popolo” che poi confluirà in breve nel “Mutuo Soccorso”, un chiaro esempio di solidarietà operaia consapevole in linea con il pensiero mazziniano sul mutualismo. In campo amministrativo Guelfi ricoprì la carica di consigliere comunale dal 1874, assessore nel 1878, pro sindaco fino al 1883 e infine sindaco dal 1883 al 1885.
Le direttrici attraverso cui si dipanò l’azione amministrativa di Guelfi furono tre: contenimento delle tasse, riduzione del debito comunale e spese straordinarie mirate alla realizzazione di opere essenziali. Le doti di amministratore gli permisero di tradurre in azione le sue idee politiche, sempre fedele al motto mazziniano “pensiero e azione”. Il “modello Lajatico” lo applicò con successo ad altre realtà, su tutte Castelnuovo Berardenga, di cui fu sindaco dal 1893 al 1897. Un’altra formula mazziniana, quella del “capitale e lavoro nelle stesse mani” riuscì concretamente ad applicarla dando vita a una piccola banca di credito operaio, per affrancare operai e contadini dall’usura e dalla miseria, fermamente convinto dell’idea della funzione sociale del credito, da attuarsi nella forma di società cooperativa intesa quale strumento per conseguire risorse altrimenti irraggiungibili da vaste fasce di popolazione. La grande opera di Guelfi consistette nell’aver fatto evolvere una tradizionale associazione di ispirazione mazziniana, la “Società per l’Educazione del Popolo” di Lajatico in un istituto di credito, segnando profondamente la storia di quella che era allora la zona più povera della provincia di Pisa. La Banca Popolare Cooperativa di Lajatico divenne infatti negli anni della direzione Guelfi, un punto di riferimento per la Valdera facendo da volano per la crescita economica di tutta la zona e capace di sostenerne lo sviluppo agricolo, fino ad allora in condizioni di enorme difficoltà. Nel 1907 dopo la fine della direzione, si trasferì a Castelnuovo Berardenga dove oltre a ricoprire la carica di primo cittadino fu anche consigliere del locale Comitato della Croce Rossa. Le spiccate capacità amministrative fino a quel punto dimostrate gli volsero inoltre, a Siena, la carica di Sindaco revisore del Monte dei Paschi.
Guelfi morì due settimane dopo la celebrazione del cinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, un risultato cui lui e suo padre, con migliaia di patrioti, diedero un contributo significativo. Il suo mazzinianesimo mirò sempre ad una traduzione amministrativa degli ideali del Genovese, e la sua grande opera al servizio del Paese si espresse sia attraverso l’aiuto concreto ai ceti popolari con il cooperativismo, sia guidando con mano ferma e grande competenza realtà comunali alle prese con difficilissimi bilanci. La sua eredità, quella che dovrebbe ispirare l’azione degli amministratori pubblici di ogni epoca, resta senza dubbio il suo esempio. Un esempio sempre concreto, di una vita illuminata dai fari di un vocabolario etico che guidò sempre la sua azione: missione, dovere, bene comune, civiltà, pubblico interesse. Parole che devono tornare a diffondersi nelle scuole, tra le giovani generazioni, e ad essere la guida certa di ogni uomo che si trova a ricoprire incarichi pubblici, perché contengono l’essenza più importante di ogni patriota italiano.
Alessio Pizziconi