Guglielmo Oberdan

MORTE A FRANZ, VIVA OBERDAN! – A 140 anni dall’esecuzione di Guglielmo Oberdan


Le bombe, le bombe all’Orsini
il pugnale, il pugnale alla mano
a morte l’austriaco sovrano
noi vogliamo la libertà
Morte a Franz, viva Oberdan!
Morte a Franz, viva Oberdan!
Vogliamo formare una lapide
di pietra garibaldina,
a morte l’austriaca gallina,
noi vogliamo la libertà
Morte a Franz, viva Oberdan!
Morte a Franz, viva Oberdan!
Vogliamo spezzar sotto i piedi
l’austriaca odiata catena
a morte gli Asburgo Lorena
noi vogliamo la libertà
Morte a Franz, viva Oberdan!
Morte a Franz, viva Oberdan!
(Franz è, ovviamente, Francesco Giuseppe I, Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria, Boemia ecc.; l’austriaca gallina è l’aquila bicipite degli Asburgo, che campeggia sul giallo oro della bandiera austro-ungarica; la bomba all’Orsini, usata da Felice Orsini nell’attentato del 1858 contro Napoleone III, è una bomba che invece di utilizzare una miccia, esplode, lanciandola a mano, appena impatta un ostacolo solido: venne usata in molti attentati irredentisti o anarchici tra Ottocento e Novecento).

Questa canzone fu composta da un anonimo, irredentista, garibaldino o anarchico (o, chissà, forse tutte queste cose insieme) nel 1885, due anni e mezzo dopo l’esecuzione del giovane Oberdan e tre anni dopo la proclamazione della Triplice Alleanza tra Germania, Austria e Italia.
Per lunghissimo tempo, da noi, chi la cantava pubblicamente sarebbe stato arrestato come facinoroso e processato per attività sovversiva. Le cose cambiarono solo nel 1914, con l’ultimatum dell’Austria alla Serbia, nei mesi di acceso confronto generale che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia.
Ma il 20 dicembre 1882, quando il ventiquattrenne Wilhelm Oberdank (questo il nome vero, il padre adottivo di cui portava il cognome era tedesco, la madre era slovena) moriva impiccato nella Caserma Grande di Trieste, la città dove era nato, perché disertore dell’esercito austro-ungarico e per progettato regicidio nei confronti dell’Imperatore Francesco Giuseppe, il governo Depretis si era appena impegnato, aderendo alla Triplice Alleanza, a rinunciare alle rivendicazioni sul Trentino e la Venezia Giulia: le due regioni rimanevano parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico, diventato nel maggio 1882 amico e alleato dell’Italia.
Era chiaro che anche nel futuro la città imperiale di Trieste, il porto più importante dell’Austria-Ungheria, associata alla Casa d’Asburgo da cinquecento anni, non avrebbe mai potuto esser ceduta all’Italia, come mai verrebbe in futuro concessa alcuna parte del Küstenland, il litorale austriaco che comprendeva anche Gorizia e l’Istria. Forse in un giorno lontano si sarebbe potuta considerare la cessione all’Italia della città di Trento e delle sue montagne, ma era tutto da vedere.
Fu così che in Italia, per evitare situazioni imbarazzanti con i nuovi alleati, la censura governativa intervenne sulla stampa, oscurando la notizia dell’esecuzione di Oberdan e delle manifestazioni di protesta che ne seguirono.
La propaganda degli irredentisti, nell’Italia umbertina e particolarmente sotto i ministeri Depretis, Crispi e Pelloux, fu punita duramente e sistematicamente, come già veniva fatto per gli anarchici e i socialisti. La collaborazione tra la polizia austriaca e quella italiana, per segnalare gli spostamenti di individui politicamente sospetti ed eventualmente arrestarli, era costante e fattiva. Tutto secondo logica, se guardiamo dal punto di vista della diplomazia di stati e governi, tutto inaccettabile, se vediamo con gli occhi di milioni di oppressi.
Questo spiega la convergenza tra uomini e donne differenti per pensiero, formazione ed età, divenuti apostoli di libertà e giustizia, erranti propagandisti di uguaglianza, simili tra loro per la generosità e l’eroismo affabile e seduttivo che li distingueva: l’anarchico Bakunin, evaso dalla Siberia, che clandestinamente va a trovare Garibaldi a Caprera e ne diventa grande amico; lo stesso Garibaldi che a Londra, nel 1854, di ritorno dall’America del Sud, stringe caldi rapporti con un altro esule russo, il populista Aleksandr Herzen; Sirtori, il prete-eroe che nel 1849 a Venezia rimboccò la sottana al primo sparo e per tutto il tempo dell’assedio e della difesa di Marghera si batté col fucile in mano, sotto una grandine di pallottole, come lo descrive lo stesso Herzen che lo conobbe…
Altri volti, di una generazione dopo: Anna Kuliscioff, rivoluzionaria, medico e giornalista, che si batté tutta la vita per il riscatto delle donne e per il socialismo, le garibaldine Rose Montmasson, Tonina Masanello, Jessie White Mario e le altre, combattenti con le armi in pugno, infermiere, organizzatrici, propagandiste, e spesso, dopo l’Unità d’Italia, impegnate nella battaglia per il riconoscimento dei diritti delle donne, della democrazia, dell’istruzione popolare, delle leggi sul lavoro. Migliaia di teste pensanti, di volontà caparbie, di vite intere regalate ad una causa. Importa poco se la causa non è identica per tutti, la generosità e la lealtà sono le stesse, e ci si confronta.
Attorno al 1880 esistevano gli anarchici, che avevano come patria il mondo intero, ma reagivano al grido di rivolta dei popoli – irlandesi, polacchi, macedoni e tutti gli altri – a cui la patria era negata dalle grandi potenze e dal colonialismo, ed auspicavano la fine dei grandi imperi autocratici come Russia, Germania e Impero Asburgico; c’erano i repubblicani, come il fuoruscito triestino, garibaldino, Matteo Renato Imbriani, che usò per primo l’espressione terre irredente e fondò nel 1877, insieme al generale Avezzana, l’Associazione in pro dell’Italia irredenta, col sostegno di Garibaldi, Felice Cavallotti e Carducci.
C’erano infine i socialisti, sempre più numerosi, che volevano unire i proletari di tutto il mondo e abbattere le frontiere, nella lotta comune contro il capitalismo e gli sfruttatori. Alle guerre dei padroni, alle stesse guerre per l’indipendenza nazionale, tendevano a dare una risposta pacifista: I PROLETARI NON SPARERANNO CONTRO ALTRI PROLETARI, I PADRONI LE LORO GUERRE LE COMBATTANO DA SOLI!
Tuttavia molti socialisti appoggiarono la lotta dei dinamitardi irlandesi contro l’Impero Britannico, dei separatisti catalani contro la Corona Spagnola, dei ribelli algerini contro l’espansione coloniale francese, del popolo macedone contro l’oppressione turca e degli abitanti della Bosnia-Erzegovina contro il nuovo padrone asburgico: pensavano che la solidarietà con i ribelli sarebbe servita a far collassare un po’ prima le già indebolite fondamenta dell’Impero Russo, Ottomano e Austro-Ungarico liberando milioni di contadini da una situazione medioevale e dischiudendo le compresse energie di popoli finora imbavagliati: polacchi, cechi, serbi, croati, bulgari, greci o italiani. 
Pensavano che Russia, Turchia ed Austria sarebbero uscite ridimensionate da questo processo,  costrette a rinnovare in senso democratico le loro strutture sociali, mentre le più progredite  democrazie borghesi come Francia ed Inghilterra, messe in seria difficoltà nella loro espansione coloniale dalle lotte dei popoli, avrebbero dovuto cambiare radicalmente, diventando democrazie vere e aprendo la porta al socialismo. Il volontariato, dall’Ottocento fino alla guerra di Spagna, ebbe questo di straordinario: in tutto il mondo persone diversissime per lingua,  nazionalità, ceto e fede politica,  misero in gioco la vita combattendo per la libertà della propria gente, e quando questo era impossibile, si batterono per la libertà di altri popoli.
Li ritroviamo insieme, espatriati dalla Russia e dagli Stati Uniti, dalla Bulgaria, dall’Italia, dalla Boemia, dal Brasile, da ogni angolo della terra, in Sicilia assieme a Garibaldi, a Digione assediata dai Prussiani, nella Parigi insorta durante la Comune del 1870, nei Balcani, nelle trincee a fianco degli Italiani dopo la tragedia di Caporetto.
Da Dublino a San Pietroburgo, da Monza a Sarajevo irredentisti e anarchici utilizzarono le stesse armi e si confusero gli uni con gli altri nell’applicazione della etica suprema del tirannicidio in nome della libertà e della giustizia: il tiranno lo si uccide pubblicamente col pugnale, con la dinamite, col revolver, e l’attentatore solitamente non si concede vie di fuga ma si fa prendere, per trasformare il proprio processo  e la propria condanna in un pubblico atto d’accusa contro la tirannia e l’oppressione. Il popolo avrebbe raccolto l’esempio.
Così, tra la seconda parte dell’Ottocento e l’attentato di Sarajevo del 1914, non solo in Italia ma in gran parte del mondo, la tensione morale è diffusa e fortissima, in nome del riscatto della propria libera identità di popolo, o per combattere l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento. Si esprime con metodi diversi, che vanno dall’apostolato e propaganda, ai tentativi di piccoli gruppi pronti a morire per scatenare l’insurrezione, fino all’attentato solitario ed esemplare contro il tiranno e i suoi collaboratori.
La vicenda di Oberdan, attentatore senza attentato, come fu detto (sul luogo dell’ipotetico attentato non ci arrivò mai), che durante il processo pare avesse, provocatoriamente, fatto di tutto per farsi condannare a morte dagli ottusi giudici militari, idealista disperato e solo, è in qualche modo emblematica di questa tensione morale.
Oberdan era interessato ad immolarsi, Getterò il mio cadavere fra l’Imperatore e l’Italia! prima ancora che ad uccidere Francesco Giuseppe, pensava che la propria morte potesse in qualche modo scuotere una opinione pubblica italiana ormai addormentata, e un governo italiano che, per calcoli di politica estera, aveva definitivamente messo da parte la questione delle terre irredente.
I nostri governi di allora fecero di tutto per oscurare la memoria di questo giovane inopportuno e scriteriato. Per motivi opposti, nel 1915, il fantasma di Oberdan fu recuperato, spolverato, rivestito e blandito (i governi sono capaci, quando vogliono, anche di resuscitare i fantasmi se torna utile) e poco dopo accomunato alla memoria degli irredentisti trentini Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa, e dell’istriano Nazario Sauro.
La retorica mussoliniana in un primo tempo utilizzò le icone dei martiri irredentisti, cercando di proporli come precursori dell’idea fascista, poi cominciò a trovarli un po’ imbarazzanti: Oberdan e Battisti avrebbero certo condannato la politica di italianizzazione forzata e violenta, attuata dal fascismo nei confronti delle minoranze slovene e altoatesine in territorio italiano, che avrebbe fatto sorgere in quelle popolazioni un irredentismo di segno contrario, che avrebbe considerato come oppressore lo stato italiano.
Con il Patto d’Acciaio del 1939, l’amicizia con la Germania nazista rendeva del tutto inopportuni certi personaggi e certi simboli: nella mia città, Firenze, il monumento ad Oberdan fu realizzato immediatamente dopo la prima guerra mondiale, grazie anche ad una sottoscrizione degli studenti della città. E’ una grande testa in bronzo, ritratto del giovane triestino, collocata su una alto parallelepipedo rivestito di pietra serena. La piazza del monumento era un tempo intitolata a Giordano Bruno e successivamente è divenuta piazza Oberdan. E’ un luogo tranquillo, a suo modo signorile.
Dicono che subito dopo la Grande Guerra, tutto attorno alla piazza furono piantati moltissimi lecci, e la sera la gente attaccava e accendeva dei lumini ad ogni albero, per ricordare i caduti. Il luogo, spontaneamente, divenne per gli abitanti una sorta di parco della rimembranza. Dopo la Seconda Guerra quei lecci furono tagliati, oggi abbiamo dei bei tigli.
Sotto l’occupazione tedesca la testa di Oberdan fu rimossa dalla sua base, agli occupanti non faceva piacere vedersela davanti agli occhi, così la sistemarono in un deposito. Fu ricollocata al suo posto nel 1945.