P DI PARTIGIANO

Un romanzo storico il cui protagonista è un soldato della Divisione “Garibaldi”

La dittatura, l’ubriacatura nazionalista, poi una guerra disastrosa, il tentativo vano di uscirne senza danni, sono alcuni tra i principali passaggi della storia italiana tra anni trenta e quaranta, che finirono per segnare la vita di tanti giovani dell’epoca, costretti a subire le conseguenze di scelte politiche sbagliate. Nel dopoguerra, restituiti ad una quotidianità sempre più caratterizzata da continue trasformazioni culturali e sociali, molti tra loro operarono una sostanziale rimozione delle esperienze vissute, provando a nascondere a se stessi ed ai familiari vicende in breve divenute anacronistiche e troppo complesse da spiegare, memoria di sofferenze e disagi da cui allontanarsi definitivamente. Solo da pochi decenni, molte di quelle storie stanno ritornando alla luce, grazie in molti casi ai nipoti dei protagonisti di allora, al loro desiderio di scavare ed indagare a partire da una vecchia medaglia o da un attestato a rischio di sbiadire del tutto ritrovato in un cassetto della casa di famiglia. È questo il caso anche di Pasquale Donnarumma, il quale ha pubblicato un romanzo storico, P di partigiano (Delta 3 edizioni, 2020), in cui il personaggio principale è il nonno e la trama narrativa riguarda la sua partecipazione alla Seconda guerra mondiale. L’invenzione di altri personaggi, di circostanze e dialoghi, si innesta in un contesto costruito su solidi riferimenti storici, risultando funzionale alla costruzione di un racconto che, anche quando è frutto dell’immaginazione, risulta del tutto credibile. Inoltre, lo stile linguistico adottato, moderno e fluente, consente una lettura piacevole, apprezzabile anche dai più giovani.

Ulteriore elemento di interesse è offerto dal teatro di guerra in cui agisce Pasquale P., uno dei tanti dove furono impegnati militari italiani fuori dai confini nazionali, ma anche uno dei meno noti, ossia il Montenegro ed il Sangiaccato, territori della penisola balcanica incastonati tra Croazia, Serbia ed Albania. Dopo l’offensiva tedesca della primavera del 1941 e la conseguente divisione dell’ex Regno di Jugoslavia tra i nazisti ed i loro alleati, fu formalmente ricostituito il Regno del Montenegro, ma nei fatti assegnato al controllo ed all’amministrazione degli italiani attraverso la forma del protettorato. Tuttavia, molti montenegrini, alla pari di altri slavi, non deposero le armi nonostante l’avvenuta occupazione ed organizzarono bande di partigiani, impegnate in azioni di guerriglia contro i nazi-fascisti. Il miscuglio di componenti etniche e religiose, che ancora oggi caratterizza la penisola balcanica e che è particolarmente evidente nell’area montenegrina, influenzò anche la composizione e l’azione delle diverse formazioni partecipanti alla resistenza slava, tra cui fin dagli inizi si segnalarono per la particolare capacità di raccogliere consensi le organizzazione di matrice comunista. I militari italiani furono impegnati fino all’8 settembre 1943 nella repressione dei partigiani slavi, facendo ricorso ai metodi consueti alle forze di occupazione, in numerosi casi resi più violenti e spietati dal modello tedesco da un lato e dall’altro dalla personale inclinazione del generale Alessandro Pirzio Biroli, investito dei pieni poteri civili e militari in quei territori. Dopo la proclamazione dell’armistizio e del coincidente crollo delle istituzioni statali, i soldati italiani presenti nella penisola balcanica si ritrovarono improvvisamente dalla stessa parte degli slavi, uniti dal comune nemico. E, in tale inedita situazione, non furono pochi coloro che in Montenegro si unirono alle bande partigiane, con il prevalente obiettivo di sfuggire ai nazisti, ma anche, ormai sciolti dal vincolo dell’obbedienza ai superiori, condividendo le ragioni di chi fino a quel momento avevano combattuto.

In assenza di documenti e testimonianze, Pasquale Donnarumma prova ad intuire possibili motivi e plausibili modalità che accompagnarono il passaggio di giovani italiani dell’epoca da una guerra di conquista ad una guerra per l’indipendenza, da una visione ideologica ad un’altra del tutto contrapposta. Una scelta di campo che ebbe il valore di riscattare, almeno parzialmente, la guerra voluta dal regime fascista, che coincise con quella operata nello stesso periodo da altri in Italia e che, nei suoi aspetti fondamentali, annunciò e preparò la democrazia che stava per rinascere. Evidente, quindi, che, oltre alla curiosità intellettuale ed ai sentimenti familiari, una profonda ispirazione civica domina la storia del partigiano P., capace di rinverdire i perché di scelte ormai lontane a vantaggio soprattutto dei giovani di oggi.

Alfonso Conte, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Salerno