Una riflessione sulla memoria della comunità ebraica italiana
di Andrea Spicciarelli
Il 9 ottobre, presso il borgo aretino di Rondine, la senatrice Liliana Segre ha reso per l’ultima volta la sua testimonianza pubblica sulla Shoah. Novant’anni compiuti lo scorso 10 settembre, Segre aveva ormai da tempo deciso di porre termine a questo impegno, per via della fatica e della sofferenza del ricordo. Dopo un lungo silenzio, anche se per l’adolescente appena riemersa dall’orrore di Auschwitz «sembrava normale raccontare», intorno ai sessant’anni Segre comprese quale fosse il suo dovere: lei, sopravvissuta, doveva dare testimonianza, specialmente ai più giovani, affinché non si dimenticasse la tragedia della Shoah e per ricordare tutti coloro che non ce l’avevano fatta, tutti coloro che furono spietatamente uccisi per l’unica colpa di essere nati. È per loro il silenzio da lei richiesto ai presenti ogni volta che iniziava a riannodare i fili della propria vita: una vita «interrotta» nel settembre del 1938, quando entrò in vigore la prima delle leggi razziali fasciste che sanciva per tutti gli studenti ed insegnanti di religione ebraica l’interdizione dalle scuole statali di ogni ordine e grado. Da quel momento Segre – e con lei migliaia di italiane ed italiani – divennero «altri» e, nell’indifferenza pressoché generale, incominciò per questi novelli déraciné (sradicati) un cammino destinato alla tragedia. Nell’intervento al Parlamento europeo, in occasione dell’ultima Giornata della Memoria, lei stessa ricordò con commozione quanti ebrei, non solo italiani, «si erano profondamente sentiti […] cittadini, patrioti tedeschi, italiani, francesi, ungheresi, si erano battuti nelle guerre; quanti ebrei tedeschi piangevano, si suicidarono, perché si sentivano tedeschi, più di ogni altra cosa, e questa espulsione dalle comunità nazionali fu dolorosissima». Veniva così interrotta – con un brutale provvedimento legislativo voluto da Mussolini e controfirmato dal re – una storia che aveva visto la comunità ebraica peninsulare essere protagonista, fin dai primi anni dell’Ottocento, di quel percorso di ideazione e formazione dello Stato unitario, un percorso che, nondimeno, fin dalla Repubblica romana del 1849 vide cadere in battaglia i primi “martiri” israeliti (su tutti, si pensi al giovane triestino Giacomo Venezian). Quella comunità, che lo Statuto Albertino aveva emancipato, integrandola nella compagine sociale piemontese, saldò negli anni il suo rapporto con la dinastia sabauda e quindi con la società italiana, arruolandosi nelle file dei Cacciatori delle Alpi e in quelle dei Mille, accorrendo a Bezzecca ma anche a Mentana, a Roma e poi in Francia nel 1870. Non mancarono israeliti nella nuova fase del garibaldinismo, quella animata da Ricciotti Garibaldi a partire dal 1897, ed infine, a suggello della fedeltà a Casa Savoia, venne il contributo ebraico allo sforzo militare italiano nella Prima guerra mondiale. Tra quegli oltre 5.500 ufficiali e soldati di fede mosaica ricordiamo la figura di un impiegato capitolino, il tenente del 51° Reggimento Fanteria Alberto Chimichi, classe 1892: combatté per tutta la durata del conflitto nelle file della Brigata Alpi, condividendo con essa le asperità dolomitiche e l’impegno sul fronte francese nel 1918. Proprio per il suo contegno dimostrato a Bligny, nel giugno di quell’anno, fu decorato della medaglia d’argento al valor militare. Tornato alla sua vita civile, il garibaldino reduce della Grande guerra fu colpito, al pari dei suoi correligionari, dai Provvedimenti per la difesa della razza italiana del novembre 1938, e successivamente dal R. Decreto Legge 22 dicembre 1938 che promulgava specifiche Disposizioni relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze armate dello Stato di razza ebraica. Pertanto, quegli stessi soldati che «si comportarono esattamente come gli altri», ritenendo «attraverso il sangue versato […] di aver sanzionato sul piano etico e materiale la propria appartenenza italiana, […] di aver saldato il debito di gratitudine verso quella terra e quelle genti che li avevano riconosciuti come eguali tra eguali, liberi di esplicare le proprie tradizioni e di coltivare il proprio retaggio», venivano ora espunti da qualsivoglia aspetto della vita italiana, sradicati da quella società entro la quale si erano integrati ed anzi – agli occhi dello storico di oggi – erano indistinguibili dagli altri concittadini, proprio per via di quel retaggio vissuto ormai come un mero “fatto privato”. Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista dell’Italia centro-settentrionale, all’esclusione seguì la deportazione: Chimichi fu arrestato a Roma nel novembre 1943, poco più di un mese dopo il grande rastrellamento dell’ottobre. Inviato al campo di concentramento di Fossoli (in provincia di Modena), lì rimase fino all’aprile dell’anno successivo. Sono arrivate fino a noi, come tracce di quella permanenza, due cartoline inviate all’amico Carlo Ulivelli, l’ultima datata 4 aprile 1944: «Partiamo domattina per ignota destinazione. Sto benissimo di salute e di umore. Saluti a quanti mi pensano». Quell’“ignota destinazione” si rivelò essere il campo di concentramento di Auschwitz, dal quale Chimichi non fece mai più ritorno (Si ringrazia la Fondazione CDEC di Milano per il reperimento di questa documentazione).
Proprio in ragione di ciò Furio Colombo, quando presentò la proposta di legge per istituire anche in Italia la Giornata della Memoria, suggerì di farla cadere il 16 ottobre – per soffermarsi sul rastrellamento del 1943 – perché quell’episodio «è una delle dimostrazioni che la Shoah è anche un delitto italiano. È vero che il nostro Paese ha avuto un alto numero di Giusti, ma è anche vero che ha scritto delle leggi razziali peggiori di quelle naziste. E tuttavia nel dopoguerra non abbiamo fatto i conti con le nostre responsabilità ma ci siamo autorappresentati come vittime». Di contro, si è riversato sulle spalle dei sopravvissuti «un compito che va oltre l’umano: simbolico, messianico, salvifico»: da qui la preoccupazione e lo smarrimento di fronte alla fine, sempre più imminente, della cosiddetta “era del testimone”. Per questo urge trovare risposta alle seguenti domande: come continuare a serbare il ricordo tutto questo orrore? Come rimembrarlo senza cadere nella trappola della banalizzazione? Come commemorare mantenendo una memoria attiva e non di facciata?
Una risposta risiede nello stesso termine ebraico che designa l’atto del ricordare: zakhor. Spiega Silvia Antonelli che «La radice del lemma […] fa riferimento a uno spazio semantico che va molto al di là del semplice remember inglese: zakhor può essere tradotto anche con il verbo agire». Il ricordo pertanto non è un gesto, un atto passivo: è un’azione volontaria che ha bisogno di un «innesco che metta in moto un processo, in cui noi, attivamente, elaboriamo un evento passato, lo collochiamo, ne diamo forma e voce, lo relazioniamo al nostro passato e, soprattutto, lo allacciamo al nostro presente. Attraverso questo passaggio il ricordo diventa memoria», conficcandosi così nel presente collettivo. È seguendo questa strada che ricercatori, istituzioni, associazioni, scuole ed artisti si stanno preparando da tempo a quell’imminente, difficile ma nondimeno necessario passaggio di consegne, affinché questa memoria non vada perduta, affinché si continui a studiare e a mettere insieme frammenti di quelle vite degne di essere ricordate, affinché non si ritorni a quell’indifferenza che permise il sorgere di tutto quell’orrore. La fondazione dei Centri di Documentazione Ebraica, il fondamentale Libro della memoria di Liliana Picciotto dedicato alle oltre ottomila vittime italiane dell’Olocausto o lo Stolperstein Projekt (Progetto Pietra d’Inciampo) del berlinese Gunter Demnig vanno in questa direzione.
Da parte nostra, la mostra Ebrei in camicia rossa. Mondo ebraico e tradizione garibaldina fra Risorgimento e Resistenza, curata da Eva Cecchinato, Federico Goddi, Andrea Spicciarelli e Matteo Stefanori (progetto grafico di Simone Zappaterreno), promossa dall’ANVRG in occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, è nata con l’intenzione di andare proprio in questa direzione. In questi tempi complessi, segnati da una recrudescenza di atteggiamenti ed atti antisemiti che trovano in un linguaggio d’odio, razzista ed escludente terreno fertile per tornare a proliferare (il pregiudizio antiebraico, d’altronde, «ha attraversato i secoli come un fiume carsico»), c’è bisogno di un impegno che sia civile e culturale, che attivi la memoria attraverso il recupero di storie individuali che vadano ad intrecciarsi nel più generale percorso sociale e politico di una determinata collettività. La sostanza del percorso sugli Ebrei in camicia rossa è proprio qui: nello storicizzare, rendendolo fruibile anche al cittadino e non solo allo storico di professione, quel percorso di doppia emancipazione (sociale e politica, ebraica e garibaldina) che fa pienamente parte della storia del nostro paese. Un bel segnale in questo senso è giunto, lo scorso 14 ottobre, dal convegno ospitato dal Museo Ebraico di Bologna ed incentrato sul volontariato militare ebraico (che inizialmente si sarebbe dovuto tenere in concomitanza della tappa felsinea dell’esposizione). Seppur partendo da un tema così specifico, i relatori hanno ripreso le fila, a beneficio degli spettatori, di quella lunga ed ormai bimillenaria storia della presenza ebraica in Italia, nonché di quella più che secolare di cui si è accennato poco sopra. Gli interventi della prof.ssa Francesca Sofia (Univ. di Bologna), di Andrea Spicciarelli e del prof. Claudio Vercelli (Univ. Cattolica di Milano) si sono naturalmente focalizzati anche su quel versante militare attraverso il quale è passata la legittimazione degli ebrei come cittadini italiani, ed infine su quella peculiare esperienza che nel corso della Seconda guerra mondiale fu rappresentata dalla Brigata Ebraica1.
Insomma, come sottolineò Tzvetan Todorov, la memoria deve «farsi strumento affinché il passato diventi «principio d’azione» per il presente. […] Oggi non ci sono più rastrellamenti di ebrei, né campi di sterminio. Noi dobbiamo tuttavia mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per restare attenti di fronte al manifestarsi di situazioni nuove e tuttavia analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione degli altri non sono identiche a quelle di cinquanta, cento o di duecento anni fa; nondimeno dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente». Agire, per non rimanere indifferenti.
1Il video dell’intero pomeriggio di studi è reperibile sul canale YouTube del Museo del Risorgimento di Bologna (Storia e Memoria di Bologna) sotto il titolo: Il volontariato militare ebraico (1848-1945). Si ringrazia Luca Maria Papi Vecchi per le riprese.