Targa dedicata ai Prefetti Amari nel 150° dell’Unità d’Italia a Loconovo degli Amari (Trapani) (viaggi.corriere.it)

PREFETTI AMARI

di Angelo Gallo Carrabba

Nel Trapanese, fra Partanna e Castelvetrano Selinunte, da qualche anno c’è anche una strada provinciale che porta il loro nome: “Strada dei Prefetti Amari”, e la musicalità di quel nome, oltre a rendere omaggio alla tradizione amministrativa di un’illustre famiglia siciliana, sembra quasi evocare anche le spinose responsabilità del loro impegno istituzionale. Una casa, quella degli Amari, che, negli ultimi due secoli, ad ogni generazione ha dato qualche buon servitore allo Stato, e le cui vicende si sono strettamente intrecciate in chiaroscuro con le pagine più rilevanti della storia del Paese.

La narrazione di questo ramo familiare ha origine nel 1815, in un lembo di Sicilia non lontano dal fiume Belice, con il matrimonio fra il ventenne Domenico Amari e Leonarda Cusa, agiati proprietari terrieri che avranno ben sedici figli; di questi Bartolomeo, nato a Castelvetrano nel 1816, diverrà il primo prefetto della casata.

Descritto di animo ribelle, Bartolomeo già nel 1848 – tradendo l’antica fedeltà borbonica del padre – è protagonista dei moti castelvetranesi e conosce la repressione dell’esercito delle Due Sicilie, riuscendo ad evitare la pena capitale ma non il carcere. Al tempo dell’impresa dei Mille, presiede il Comitato rivoluzionario di Castelvetrano, di cui è stato uno dei promotori, e si occupa dell’arruolamento dei volontari su quel territorio. Del suo entusiasmo resta traccia in una lettera del 14 maggio 1860 a Giuseppe La Masa, nella quale, alla vigilia della battaglia di Calatafimi, descrive lo “slancio sublime” del popolo di Castelvetrano e la sua corsa “a soscriversi per marciare al fianco degli eroi di Varese e Solferino”.

Durante la dittatura di Garibaldi, Bartolomeo Amari Cusa è presidente del Municipio di Castelvetrano, poi cooptato nella nascente amministrazione con grado di vice-governatore ed inviato a Girgenti. Con l’unità d’Italia, si trova impegnato in prima linea nell’amministrazione del nuovo Regno: trasferito a L’Aquila col grado di consigliere delegato, viene nominato prefetto nel 1866 e destinato a Cosenza, allora capoluogo della Calabria Citeriore, dove si distingue nel contrasto al brigantaggio, venendo accusato anche di metodi assai spregiudicati; in realtà studi più recenti ìndicano che si adopera per mitigare gli eccessi repressivi del suo predecessore Guicciardi e del famigerato colonnello Fumeli. Sarà poi prefetto a Bari, Rovigo e Forlì, dove la sua carriera si interrompe bruscamente.

La sua esperienza in Romagna è legata a due episodi assai controversi dell’estate 1874: la retata di Villa Ruffi (dove, durante una riunione politica, per volere dell’allora ministro dell’Interno Cantelli vengono arrestati per sedizione 28 repubblicani, fra cui Aurelio Saffi, Federico Comandini, Antonio Fratti e il futuro primo ministro Alessandro Fortis) e il susseguente scioglimento della Società Operaia di Forlì, disposto da Amari Cusa con un provvedimento ferocemente criticato dalle opposizioni.

Nel 1876, con l’avvento al governo della Sinistra storica, il ministro dell’Interno Giovanni Nicotera lo rimuove dall’incarico: “dispensato dal servizio e ammesso a far valere i suoi titoli per la pensione”, l’amara formula che tronca il suo percorso professionale. Morirà nel 1881 a Lecce, e dieci anni più tardi il Comune di Castelvetrano gli dedicherà una lapide commemorativa sulla sua casa natale.

Anche la terza generazione degli Amari Cusa consegna agli annali un alto funzionario dello Stato: è Benedetto Amari, nipote di Bartolomeo in quanto figlio del fratello minore Michele. Benedetto nasce a Partanna nell’ottobre 1860 e, dopo avere conseguito la laurea a Palermo nel 1883, entra per concorso nell’amministrazione regia nel 1889. La sua sarà una carriera lunga e girovaga, durante la quale presterà servizio in diverse prefetture della Sicilia (Catania, Palermo, Siracusa, Trapani, Messina) finché non assumerà funzioni di sottoprefetto prima a Modica, poi a Matera, Caltagirone, Gerace, Barletta, Palmi, Lugo, Formia e Sciacca.

Una carriera con qualche inciampo: quando è sottoprefetto a Caltagirone, Benedetto Amari viene denunciato dal direttore di un giornale localeii, che lo accusa di averlo bastonato e preso a calci per alcuni articoli di critica alla gestione della sicurezza pubblica nella cittadina. Condannato a 400 lire di multa per lesioni personali e minaccia con arma, Amari ricorre fino in Cassazione invocando la cosiddetta “garanzia amministrativa” (cioè l’impunità per prefetti e sottoprefetti per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni); la Suprema Corte, però, nel luglio 1903 ne respinge seccamente la tesi difensiva, confermando la condanna.

L’incidente di Caltagirone e una malferma salute (più volte dovette essere collocato in aspettativa per malattia) forse impediscono a Benedetto Amari di poter avere una più luminosa e gratificante carriera: riesce a raggiungere il grado di viceprefetto soltanto nel 1915, ricoprendo tale funzione a Girgenti, a Palermo e infine a Udine. Muore nella natìa Partanna nell’aprile 1921, a poco più di 60 anni.

Occorre, a questo punto, un passo indietro, ai primi anni del secolo, quando Benedetto Amari incontra in Liguria una giovanissima nobildonna austriaca, Lydia Pegger, discendente per parte di madre da alcune delle più illustri dinastie europeeiii. Nonostante i trent’anni di differenza, Benedetto e Lydia si sposano nel 1911 a Formia, dove all’epoca lui è sottoprefetto, e mettono al mondo cinque figli.

Arriviamo così alla quarta generazione degli Amari Cusa, ed anche qui non manca il contributo alle classi dirigenti del Paese. Il secondo figlio di Benedetto e Lydia è Sedulio Amari (così chiamato in ricordo del nonno austriaco Sedul), che diventerà presidente della Corte dei Conti di Palermo; ma a rinverdire la tradizione dei “Prefetti Amari” è il terzogenito della coppia, Domenico Emerico.

Quest’ultimo nasce a Girgenti nel 1915, quando il padre lavora nella città dei Templi come viceprefetto: il secondo nome che gli viene imposto pare un omaggio all’illustre giurista palermitano dell’Ottocento, Emerico Amari (per inciso: anche quel ramo della famiglia ha dato al Regno d’Italia un prefetto, il senatore Michele Amari di Sant’Adriano, che fra il 1861 e il 1867 lo fu a Modena, Livorno e Como).

Fra tutti i “Prefetti Amari”, Domenico Emerico è quello che raggiunge gli incarichi più importanti e prestigiosi, ma forse anche quello che deve confrontarsi con le vicende più buie e dolorose. La sua carriera nell’amministrazione degli Interni comincia nel 1939 a Savona per poi proseguire in varie città d’Italia; nominato prefetto nel 1966 dal governo Moro III (su proposta dell’allora ministro dell’Interno, Taviani), svolge l’incarico a Potenza, poi a Catania e a Napoli, fino ad arrivare, nel 1976, alla sede più ambita in assoluto, quella di Milano.

Anni terribili, di piombo, quelli che Amari trascorre a Corso Monforte: iniziano male nel 1976 con il disastro di Seveso, poi nel 1977 le Brigate Rosse gambizzano Indro Montanelli, nel gennaio 1979 un commando di Prima Linea uccide il giudice Emilio Alessandrini, e pochi mesi dopo, a luglio, viene assassinato dalla mafia l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Sotto la Madonnina, Amari resta fino al gennaio del 1980, per poi concludere la sua carriera al Viminale come ispettore di amministrazione. Muore a 92 anni, nel 2007.

Prima di arrivare ai giorni nostri, c’è ancora tempo per un’altra generazione di Amari sulle Guide Monaci. È la volta di un altro Benedetto, nipote di Domenico Emerico e figlio di Sedulio (il magistrato contabile), questa volta non sarà un prefetto bensì un diplomatico: nato nel 1940 a Partanna, in carriera alla Farnesina dal 1967, nominato ministro plenipotenziario, arriva a ricoprire l’incarico di ambasciatore d’Italia a Nuova Delhi (India) e Katmandu (Nepal), poi ad Asuncion (Paraguay), fino al collocamento in pensione nel 2007.

No, non è fatta d’asfalto, la Strada dei Prefetti Amari, ma di memoria, e polvere di storia.

i Cfr. A. Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento: il caso Calabria, Lecce 1991, p. 106. Ma più recente: E. Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Roma-Bari 2018.

ii Carlo Vacirca, direttore della “Gazzetta di Caltagirone”, di orientamento radicale.

iii La madre era Clothilde von Wallburg, il nonno l’arciduca Ernesto Carlo d’Asburgo-Lorena, a sua volta figlio di Ranieri Giuseppe d’Asburgo (che fu vicerè del Lombardo Veneto) e di Maria Elisabetta Savoia Carignano, sorella del Re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia.