di Angelo Gallo Carrabba
“E tutto chesto pecché? Pe na sola parola, che spieca tutta la vita de st’ommo: LA LEBBERTà!!!”. È un brano tratto da una “Vita de Peppe Galubbarde”, pubblicata a puntate sul giornale dialettale “Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto” fra il 14 luglio e il 28 agosto 1860.
Sì, mentre Garibaldi dalla Sicilia risaliva lo stivale, sotto il Vesuvio c’era chi, a beneficio della gente, ne pubblicava la biografia in napoletano perché “lo vascio puopolo ave piacere de sapè li fatti de sto farfariello mperzona”. L’autore? Anche se la “Vita” non era firmata, in calce all’ultima puntata comparvero le sigle “T.R.”, che corrispondevano ad uno dei fondatori e animatori di quel foglio, Tommaso Ruffa1.
Col fratello Edoardo (poi noto avvocato del foro partenopeo), Ruffa fu protagonista di un’intensa stagione pubblicistica: prima direttore del giornale “Il Tornese”, nel luglio 1860 – non appena il re Francesco II riportò in vigore a Napoli la Costituzione del 1848, ristabilendo la libertà di stampa – assieme a Carlo Romice2 e allo stampatore Salvatore De Marco3 diede vita a “Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto”.
Giornale “eminentemente liberale ed unitario”, secondo la testimonianza dello stesso Romice, “sol perché scritto in dialetto non impressionò la polizia”. E tuttavia non costava poco, la libertà di stampa, se è vero che dall’agosto successivo, il giornale aggiunse alla sua testata un sottotitolo – “Giurnale puliteco co la cautelazione de tremila ducate” – che richiamava l’importo della salata cauzione versata alle autorità.
Il nome del giornale, lo stesso di un’opera in versi pubblicata quarant’anni prima dal casoriano Salvatore Grasso, preannunciava il contenuto principale che i lettori avrebbero trovato sul foglio, cioè una “chiacchiariata” fra due personaggi simbolici, secondo un genere a quel tempo molto in voga a Napoli. Gli interlocutori di fantasia, evocati nel logo della testata, corrispondevano a due fiumi monumentalizzati, che impersonavano rispettivamente l’anima popolare e lo spirito colto della città: “lo Cuorpo de Napole” indicava la statua romana (per lungo tempo priva di testa) del Nilo, tutt’oggi presente a Spaccanapoli nell’omonima piazzetta “Largo Corpo di Napoli”; “lo Sebbeto” era invece l’antico corso d’acqua della città, il Sebeto appunto, ormai quasi interamente sepolto e di cui oggi resta memoria solo nell’omonima fontana barocca a Piazza Sermoneta, fra Mergellina e Posillipo.
Una chiacchierata spassosa, rigorosamente in dialetto4, volutamente didascalica, ed ispirata a malcelate simpatie garibaldine e filounitarie, che al costo di “no ranillo” (una monetina) accompagnò Napoli nel percorso dai Borbone ai Savoia rispecchiando in successione i diversi stati d’animo della popolazione: prima le attese e le speranze, poi l’irrefrenabile entusiasmo, infine le delusioni e le disillusioni.
Nel 1860, primo anno di pubblicazione del Cuorpo, prevalevano i sentimenti di slancio patriottico e fiduciosa trepidazione. Al lettore della chiacchiariata veniva proposto un duplice piano di narrazione, che all’ammirata e divertita biografia del nuovo eroe affiancava le notizie fresche in arrivo da sud, dove l’impresa garibaldina era ancora cronaca e non ancora storia.
Così, ad esempio, il 1° agosto 1860 la “Vita de Galubbarde” era incentrata sul racconto dell’incontro dell’Eroe con Anita (“No juorno mentre steva a buordo de lo bastemiento Elaporika poco lontano da terra, vedette certe figliole ca se spassavano nfra de lloro”), indulgendo a qualche greve maschilismo (“Nce ne steva una miez’a chelle ca era veramente bona, e facette correre tutto lo sango a la via de la capo a Peppariello”), ma sentenziando infine parole di ammirata e definitiva devozione per l’Eroina: “e cheste fuje tale femmena ca non lo lassaje cchiù de pede accompagnannolo purzì a la guerra (mogliere verace de no figlipostiere)”. Lo stesso giorno, poco più appresso la rubrica “Notizie de Secilia” annunciava la ritirata borbonica e la caduta di Messina: “Avimmo saputo che tutte li surdate ànno sfrattato de la Secilia. La Cettadella sta mmano a Galubbarde”.
Pochi giorni dopo, il 6 agosto, mentre la biografia garibaldina in napoletano si arricchiva del racconto della battaglia di San Antonio in Uruguay (“Lo juorno 6 Frevaro 1846 Galubbarde se trovava vicino a na cetà chiamata Salto, sempe n’Amereca, co 204 Taliane porzione a ppede e porzione a cavallo…”), qualche colonna dopo le notizie di cronaca indugiavano sull’abbigliamento dei nuovi eroi contemporanei (“Io saccio che vuje site curiuse de sapè comme vesteno le Surdate de Galubbarde! È agghiusto, sissignore, v’aggio de contentà”); seguiva una puntuale e dettagliata descrizione delle uniformi dei vari gruppi e reparti, accompagnate dall’entusiastica chiosa: “Non se po’ pittà cco parole la fiura che fanno!”
Ultimata la pubblicazione a puntate della “Vita de Galubbarde”, lo Cuorpo si dedicò a pubblicare un’altra biografia, quella di Masaniello. Frattanto, però, la cronaca incalzava la storia; in città, l’attesa spasmodica di Garibaldi (“Vene o non vene? Nuje non ce fidammo de sopportà cchiù”, 6 settembre) poteva finalmente essere esaudita e lasciare il posto all’entusiastica accoglienza.
Lunedì 10 settembre, il giornale venne dedicato interamente all’arrivo di Garibaldi a Napoli tre giorni innanzi: in apertura del foglio campeggiava lo stemma dei Savoia, la scritta “Viva l’Italia Una – Viva Vittorio Mmanuele Rre d’Italia – Viva Galubbarde Dittatore” e poi una lunga e appassionata lettera “A Peppe Galubbarde”: “Figlio primmogenito de la bella Italia, guappa spata de Vittorio Mmanuele, Sarvatore de 27 miliune de taliane, doppo tanta suspire, prairie e spantecamiente, fenarmente lo Cielo t’à mannato mmiezo a nuje…”. Ma il passaggio più genuino, divertente e rivelatore era in poche righe collocate a chiusura dell’ultima pagina, nelle quali la redazione si scusava per la mancata uscita di due giorni prima: “Belli figliù, sabato non ascette la giurnale. Ve site meravigliate fuorze? Guorsì, ma avite de sapè che venenno Galubbarde, tutta la stamparia, purzì le ggatte, voletteno fa festa e ghi perdenno la voce pe ddinto a le ccarrozze alluccanno. VIVA L’ITALIA UNA, VIVA VITTORIO MMANUELE, VIVA GALUBBARDE – Non ce vo autro”.
Compiuta finalmente l’Unità, il 18 marzo 1861, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, il giornale vagheggiò, quasi blasfemo, una bandiera tricolore con su scritto, come sulla croce, I.N.R.I.: dove quelle quattro lettere, però, stavano per “Ioseph Niceanus Redemptor Italiae”, Giuseppe di Nizza Redentore dell’Italia. Lo stesso giorno, la chiacchierata fra i due fiumi iniziava la pubblicazione di un poemetto in siciliano “A Pippinu Garibaldi”, opera del patriota e poeta palermitano Serafino Lomonaco Ciaccio5.
Negli anni seguenti, “Galubbarde” si italianizzò in Garibaldi pure per il lettore del Cuorpo, che continuò a seguire devotamente il suo eroe anche nei giorni bui e increduli di Aspromonte. Quando, nel 1864, il Generale si recò sull’isola di Ischia per cure termali alla gamba offesa, il giornale ne annotò puntualmente gli spostamenti, evidenziando il clima di affetto e venerazione popolare che lo circondava, ma anche le pesanti limitazioni cui era sottoposto. “Chi cchiù felice de Garibaldi? Chi cchiù contento d’isso che senza tenè nisciuna proprietà dispone de li meliune, senza surdate dispone de l’esercete, e che è venerato, amato e rispettato da tutte li popole de lo munno?”, scriveva Carlo Romice il 29 giugno. “Eppure co tutto chesto Garibaldi è nfelice! … non po dà no passo che subeto tutte le polezie se revotano e lo tenono d’uocchio… Tutte credono che Garibaldi è libero. Nient’affatto: Garibaldi stà attaccato peggio de chelle che se crede”.
Il Corpo di Napoli e il Sebeto proseguirono le loro chiacchierate fino al maggio 1868, quasi otto anni segnati da scissioni (per un brevissimo periodo una parte della redazione si staccò e diede vita al quasi omonimo “Lo Capo de Napole e lo Sebbeto”), sequestri di polizia e traversie varie. La delusione per lo sviluppo del nuovo stato unitario, evidentemente non conforme alle speranze in esso riposte, cominciò ben presto a serpeggiare fra le colonne del giornale, che non a caso inaugurò una nuova rubrica intitolata “Cose storte”, nella quale trovarono spazio le critiche e gli amari sberleffi a tutti i passi falsi dei governanti: le nuove tasse, la piemontesizzazione dell’amministrazione, le miopie e gli errori nella lotta al brigantaggio.
Un presagio di questione meridionale si affacciò ben presto dalle colonne di piombo della stamperia De Marco. Fino a cristallizzarsi nell’amaro sconforto della chiacchiariata dell’ultimo dell’anno del 1867. “Stammo dicenno da ott’anne sta verità, ma ntanto che n’avimmo cacciate? È comme se non avessemo parlate”, si sfogava il Sebeto. E il Corpo di Napoli gli rispondeva: “Chi te l’à ditto? Pare che non avimmo cacciato niente, ma le parole fanno sempe l’effetto lloro. Lo governo non ce à voluto sentì peggio pe isso. E ndubitato che si apprima aveva tutto lo popolo vascio pe amico, oggi chisto l’è contrario. Oggi non se po di che cosa l’aspetta, ma mperò è certo che lo bene le voleva na vota, mo è fernuto”.
1 Nato a Napoli nel 1834 da Enrichetta Langer e dal letterato tropeano Francesco Ruffa, lavorò come impiegato alle dogane ma raggiunse notorietà come giornalista, paroliere e commediografo. Fra i giornali che diresse e animò: “Lo Muolo piccolo e lo Mandracchio”, “Lo Lampo”, “Pulicenella e lo Diavolo zuoppo”.
2 Nato a Salerno nel 1842, già a 17 anni si era dato all’attività giornalistica collaborando con Filomeno Alessandroni al giornale “Il Campanello”; in seguito scrisse per molti giornali, a volte con lo pseudonimo di Carlo Cemiro, e fu anche autore di sonetti, poesie e canzonette. Nel 1910 parlò dell’esperienza editoriale de “Lo Cuorpo…” in un articolo pubblicato sul quotidiano partenopeo “Roma”.
3 La tipografia De Marco fu frequentata anche da altre eminenti personalità dell’epoca, come la scrittrice e giornalista Jessie White Mario, il linguista Leopoldo Rodinò, il poeta e librettista Ernesto Del Preite ed altri.
4 La lingua usata dal giornale, tuttavia, non entusiasmava i puristi napoletani. “è tutto in dialetto, ma di un dialetto bastardo che non fa gustare le bellezze del vero dialetto”, scriveva Pietro Martorana nel 1874 nelle “Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napolitano”.
5 Assieme al più noto fratello Antonino, fra i protagonisti dell’insurrezione della Fieravecchia a Palermo del 1850, partecipò alla rivolta della Gancia dell’aprile 1860.