di Antonello Nave
La memoria di Sem Benelli è ormai legata quasi esclusivamente a quello che fu il più clamoroso successo teatrale del letterato pratese: La cene delle beffe, un dramma storico in versi che debuttò il 16 maggio 1909 al Teatro Argentina di Roma.
Dopo la giovanile adesione agli ideali socialisti e l’iscrizione presso l’unione socialista di Costa San Giorgio a Firenze, che gli causò l’inserimento come ‘sovversivo’ nel casellario politico fino al maggio 1903, Benelli entrò nella redazione del «Marzocco», la rivista fiorentina diretta da un acceso nazionalista quale Enrico Corradini.
Alla morte di Pascoli, poi, l’ormai affermato drammaturgo ebbe dall’Università Popolare di Trieste l’invito a tenere la commemorazione cittadina, che fu apprezzata per i forti accenti patriottici: e proprio come possibile continuatore del Pascoli “politico” – più che nell’imbarazzante confronto con D’Annunzio – Sem Benelli vide la possibilità di una nuova attività letteraria come apostolo di italianità, sia nelle consuete vesti di scrittore che nel nuovo ruolo di conferenziere interventista.
Allo scoppio della guerra partì subito volontario per l’addestramento in fanteria e subito si dedicò alla stesura di un’impegnativa composizione poetica volta a celebrare il carattere sacro del conflitto e l’eroico sacrificio dei soldati italiani: nacque così il carme intitolato L’altare, che fu tempestivamente pubblicato da Treves a Milano e venne declamato in varie città d’Italia.
Ferito sul Carso nel giugno del ‘16, nei mesi del forzato congedo Benelli accettò di buon grado l’invito del comando supremo a svolgere attività di propaganda in favore della guerra e delle sue motivazioni nazionalistiche. Iniziò così per lui una nuova stagione di elaborazione letteraria, esclusivamente orientata alla stesura e alla declamazione di accese conferenze di carattere patriottico e militaristico, rivolte in alcuni casi ai soldati in partenza, in altri a quanti erano chiamati a sostenere nella vita quotidiana le ragioni di quella guerra e i sacrifici connessi.
L’esordio come oratore di guerra avvenne nel dicembre 1916 con la conferenza intitolata Italia, che egli stesso lesse a Genova, a Roma e infine a Milano: si trattava di una sorta di racconto della storia d’Italia, volta a celebrare la vocazione civilizzatrice dell’Italia e dei suoi abitatori, fin dalle sue origini, con insistita asprezza denigratoria nei confronti della barbarie germanica.
Il più ambizioso discorso propagandistico venne composto nei primi mesi del 1917 e fu dedicato a Garibaldi e alla sua epopea. In un frangente di drammatiche vicende belliche, con l’offensiva austriaca in corso, si decise di recuperare le memorie garibaldine per rinvigorire il morale dei combattenti e degli italiani tutti, insistendo sulla presunta continuità fra l’epopea dell’amatissmo eroe in camicia rossa e quella di quanti nel presente erano chiamati a combattere e a morire per l’Italia. Una sorta di uso “taumaturgico” delle memorie e delle stesse reliquie garibaldine, che si concretizzò nell’allestimento di una mostra che si inaugurò il 28 aprile 1917 nel Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, con il patronato e a beneficio della Croce Rossa Italiana. Si trattava di un’esposizione ricca di circa 700 pezzi, tra documenti, fotografie e opere d’arte di varia qualità, in buona parte provenienti dalla collezione di cimeli risorgimentali raccolta dai fratelli Everardo e Alfredo Pavia, antiquari e collezionisti torinesi che operavano nella Capitale.
Sem Benelli lesse il discorso intitolato Garibaldi la sera di sabato 12 maggio 1917 nel Teatro Augusteo di Roma di cui riportiamo alcuni passaggi (Parole di battaglia, Milano, Treves, 1918). Iniziò con parole di ammirazione per quanto esposto: «Un’epica esposizione garibaldina; una teoria di rosse virtù; di accesi ardimenti; di bandiere lingueggianti come il genio della fiamma e della giovinezza […] ci radunano qui a parlare della patria e degli eroi penultimi di nostra gente; ma più, di Giuseppe Garibaldi».
L’oratore pose subito l’accento sull’attualità dell’epopea garibaldina: «Mentre noi combattiamo oggi la guerra nuova, la guerra che l’astuta barbarie ci ha imposta: la guerra delle tane, della pazienza; la guerra mascherata; la guerra dal volto grifuto, dalle ugne raspanti; la guerra delle soffocazioni; la guerra delle pazienti e febbrili preparazioni […] possiamo noi parlare dei legionari, della turba rossa che il piccolo cervello di tanti governi italiani pencolanti limitava a poche migliaia, a poche centinaia talora, troncando la fede che spingeva quasi tutta la gioventù italiana a seguire il Duce? Di questa legione, che era non di rado senza armi? Di questa legione senza vestiti, che d’inverno passava e ripassava gli Appennini nevosi, vestita di tela, senza poter vincere la diffidenza di tanti italiani che non le offrivano per pietà nemmeno uno straccio? […] Noi possiamo e dobbiamo parlarne, ma non come di una storia d’uomini, bensì come di un elemento sostanziale della nostra stirpe».
Nel suo infiammato discorso Sem Benelli tratteggiò l’intera vicenda biografica di Giuseppe Garibaldi, secondo un intento affine e complementare, nella sua peculiare “prosa d’arte”, a quanto compiuto da Pascoli in alcuni dei Poemi del Risorgimento, pubblicati postumi nel 1913. Descrisse con conpiaciuta ricchezza di lessico e di immagini l’avventurosa epopea di Garibaldi, presentato, ben oltre la pur grandiosa figura storica, come un nume di eroica italianità: come un «genio impersonato essenziale di nostra gente; e genio che racchiude la mirabile italica potenza di bellezza».
Nella prima parte, dedicata agli anni giovanili dell’eroe, risulta evidente la scelta benelliana di trasporre e sintetizzare la materia storica in compiaciuta prosa d’arte: «Non piegò troppo la fronte sui libri, attratto com’era da un richiamo costante che gli veniva dall’infinito […] E navigando colse la verità nella bellezza e nel tradimento dell’onda».
Non appena attraversato l’Oceano e giunto «[…] nell’America selvaggia, solo egli s’inoltra, un giorno, mentre i compagni aspettano a Rio. […] Saluta l’erbe mareggianti, le piante millenarie, le pianure ricchissime; la gazzella, lo struzzo, il bove, ed ammira ed esalta il cavallo, il bello stallone della Pampa che non conosce il freddo ribrezzo del freno. […] Sente ora per ora l’ingigantirsi del suo destino, mentre combatte per la libertà americana», mentre «L’Italia che si risveglia, vede e segue da lungi questo nuovo figlio, quest’altro suo Michelangiolo. E, incatenata, lo chiama».
Nella necessità di riassumere le tappe successive dell’epopea garibaldina, Sem Benelli ricorre a un linguaggio in cui si alternano preziosismi lessicali e passi di più dimesso eloquio, nella necessità via via più evidente di trarre da quelle vicende insegnamenti e considerazioni legate alla realtà politica e militare del momento. A cominciare dalla sottolineatura di quanto fossero state imprescindibili le camicie rosse nella vicenda risorgimentale: «i garibaldini sembravano poco o punto desiderati, eppure erano necessari più di tutto, perché erano l’anima schietta d’Italia, perché eran quelli che avevano il proposito più ampio. Erano come il pane alla mensa del ghiottone: se non piace a lui, è però necessario agli altri: anch’egli d’altra parte lo mangia per ipocrisia e quando sta poco bene: insomma non può levarlo da tavola».
Il primo esplicito rimando alla guerra in corso lo troviamo quando Benelli rievoca l’arrivo dei Mille sull’altopiano di Renne che offre alle camicie rosse la vista della conca d’Oro e di Palermo: «Chi dall’insanguinato altipiano carsico ha veduto con l’arme in pugno, fremendo, la sorella nostra a specchio del mare, l’incatenata Trieste, può immaginare il cuore dei Mille in quell’ora».
L’episodio di Aspromonte offre invece a Benelli l’occasione per stigmatizzare quella che a suo dire era stata e continuava ad essere una ben diversa Italia: «più paurosa che rea, taccagna e micromane; timorosa del popolo che è il più buono del mondo; servile allo straniero; un’Italia che crede prudenza l’aspettare; che se comanda ha paura della propria ombra: un’Italia che deve sparire», mentre, al contrario, «Giuseppe Garibaldi ferito è ancora più grande. Non accusa; non si lagna d’altro che di dover aspettare d’esser sano per ricominciare la redenzione».
La «piccola Italia» esecrata da Sem Benelli sarà a suo dire nuovamente padrona degli eventi in occasione della terza guerra d’indipendenza, quando nel ’66 tenne a freno le camicie rosse, costringendo Garibaldi a fermarsi alle porte di Trento. E di amarezza in amarezza, concluderà Sem Benelli, sarà ancora l’Italia peggiore a opporsi all’ultima volontà dell’eroe, negandogli «l’omerico rito».
Pur nella sovrabbondante retorica, nel finale del discorso Sem Benelli esaltò il valore della democrazia, distinguendo però tra quella impropria e nefasta, frutto di violente rivendicazioni sociali, e quella a suo dire autentica, intesa come frutto supremo di intelletto e nobiltà morale, e tale da condurre la nazione, pur nella necessità della lotta, a un’armonica convivenza tra classi: «Di questa democrazia umana e nuova, che nel mondo ha già dato frutti meravigliosi, la nostra Madre ha creato i due maggiori apostoli, il Mazzini e il Garibaldi».
A un anno da quel discorso, nelle ultime cruciali settimane del conflitto Sem Benelli pubblicherà il testo della celebrazione garibaldina in Parole di battaglia, il volume in cui raccolse le sue conferenze come propagandista e oratore di guerra1.
Verrà poi la partecipazione all’impresa fiumana e l’adesione al fascismo, da cui prenderà le distanze a seguito del delitto Matteotti, figurando tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce e andando incontro a una prolungata diffidenza ed a un vero e proprio ostracismo da parte del regime fascista.
1S. Benelli, Parole di battaglia, Milano, Treves, 1918, pp. 55-99. Su tale produzione benelliana: S.T.amiozzo Goldman, Sem Benelli, in «Studi Novecenteschi», XIII (1986), 31, p. 11; S. Antonini, Sem Benelli, cit., nota 105; A. Nave, Parole di Battaglia. Sem Benelli propagandista di guerra, in F. Audisio-A. Giaconi (a cura di), Prato e la Grande Guerra, Atti della giornata di studi, Prato, Biblioteca Roncioniana, 28 ottobre 2015, Prato, Pentalinea, 2016, pp. 201-220.