Lia TOSI, Il tenente T e il dottor K, Edizioni ETS, Pisa, 2019, pp. 584, € 25

Nel corso dei secoli Italia ed Albania hanno condiviso innumerevoli episodi di storia comune. Paradossalmente, uno dei periodi meno indagati riguarda le relazioni tra le due sponde dell’Adriatico durante la seconda guerra mondiale. Un cono d’ombra ancor più rilevante avvolge un momento specifico del conflitto mondiale: gli avvenimenti successivi all’8 settembre, che videro protagonisti migliaia di soldati italiani sbandati, prigionieri e resistenti (anche senz’armi).

Per analizzare gli anni della presenza italiana sono fonti di sicuro interesse la memorialistica autobiografica – si pensi ad esempio a “Quota Albania”, tra i capolavori di Mario Rigoni Stern –, la diaristica, o anche alcune semplici epistole che gli uomini in grigioverde stendevano affidandosi alla postale sorte e che, potenzialmente, celano un tesoro d’informazioni. È tuttavia necessario raccogliere un quantitativo rilevante di lettere per costruire un’opera polifonica fatta di tante voci narranti, come quella del tenente T, che «scriveva a Pinolo tre volte al giorno. Fino al 6 settembre 1943» (p. 23).

Poche lettere non possono bastare, e quindi Lia Tosi ha compiuto un’opera di scavo archivistico notevolissimo, con lo scopo di assicurare al volume una ferrea impalcatura su cui si muovessero, con sobrietà, centinaia d’esempi di scrittura popolare. Sono splendide cronache personali analizzate dall’autrice con una sensibilità la cui parte viva è legata ad un’esperienza intima, quella paterna. È quindi da una posizione privilegiata, che l’A. ci accompagna verso ogni testimonianza: «Questo il tenente T, e migliaia ce ne sono come lui in tutti i Balcani, che desiderano l’innamorata, che hanno figli nati e non conosciuti, in prigionia letargica e dipendenti dall’eros postale» (p. 59). Non da ultimo, l’opera brilla per rigore metodologico, visto l’utilizzo di materiali – inediti – conservati nel fondo RICOMPART (Ricompense partigiane) presso l’Archivio centrale dello Stato, nonché delle relazioni ufficiali della guerra italiana in Albania rintracciabili presso l’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. Con l’ausilio di quest’ultima fonte l’Autrice individua gli aspetti caratterizzanti delle due guerre italiane in Albania (guerra fascista e guerra partigiana) – le meno studiate nell’area balcanica – riuscendo a presentaci in primo luogo lo spazio che separa il progetto fascista dalle realizzazioni di un protettorato italiano instabile e, successivamente, disegnando le complessità di una guerra partigiana italiana, nobile certamente, ma che non diminuiva per molti albanesi il peso delle responsabilità che spettavano ad un ex occupante. È qui situata la quotidianità del soldato italiano sul lungo periodo (le due guerre, appunto); una presenza militare in costante «deficienza qualitativa e quantitativa dei mezzi di trasporto di volta in volta assegnati» (p 40).

Le microstorie contenute nel volume aiutano l’A. a cogliere il preciso istante storico (febbraio ’43) in cui avviene l’implosione del già malfermo sistema italiano. Nei Balcani l’8 settembre italiano era forse più prevedibile che altrove: «In genere si può osservare che le autorità amministrative albanesi… mirano a tenere un comportamento di opportunistico temporeggiamento, nella tema di crearsi inimicizie in un domani ritenuto incerto e di tagliare alle loro spalle i ponti per un comodo ripiegamento» (p. 35).

In conclusione, la lettura del volume di Lia Tosi è imprescindibile per chiunque voglia affrontare lo studio delle vicende del Regio esercito nei Balcani poiché affronta nodi storiografici fondamentali, come il consenso della truppa italiana alla guerra fascista, tentando inoltre un’analisi coraggiosa degli avvenimenti successivi all’8 settembre senza cedimenti alla retorica, bensì restituendo dignità letteraria ad una rinascita italiana, tra i ranghi delle formazioni partigiane, che lumeggia proprio perché nata dalla polvere: «Era diffusa, parrebbe in gran parte del mondo partigiano, una concezione proprietaria sugli italiani: roba loro, potevano usarli a piacimento. Venderli. O spenderli, usarli senza risparmio» (p. 367).

Federico Goddi