MEDAGLIONI JUGOSLAVI Postfazione di Eugenio Liserre

Nell’arco di tre anni abbiamo pubblicato gli otto “medaglioni” scritti da Eugenio Liserre e da lui fatti pervenire alla direzione di Camicia Rossa nel 2003, prima della sua scomparsa, perché potessero trovare ospitalità sulle pagine della rivista. Le abbiamo pubblicate postume, a puntate, pressoché integralmente: un medaglione per ciascun numero. Ecco il riepilogo:

1.Matesevo-Kolasin. L’armistizio fulmine e un capitano parafulmine (“Camicia Rossa” n. 3 del 2013)

2.Bijelo Polje. Un tranquillo paese di guerra (n. 1 del 2014)

3.Bistrica. La bella estate (n. 2 del 2014)

4.Pljevlia. Garibaldi più o meno (n. 3 del 2014)

5.Kalinovik. Sfinimento (n. 3 del 2015)

6.Un film per il Durmitor (n. 1 del 2016)

7.Velimlje. Quel rimpatrio da miraggio a realtà (n. 2 del 2016)

8.Dubrovnik: alla memoria di Giovanni Carofiglio (n. 3 del 2016)

Concludiamo questo percorso di memorie con la “postfazione” dello stesso autore, “che è il vero scopo dello scritto”, ovvero una riflessione sulla guerra attraverso i ricordi del proprio vissuto, vergata con la solita incisività che gli consente in una frase di penetrare l’essenza di una situazione meglio di uno che impieghi il triplo di parole. Liserre era dubbioso che queste ultime sue riflessioni potessero essere “valorizzate”, ossia pubblicate, per i giudizi pungenti e non sempre del tutto condivisibili che le caratterizzano. Lo facciamo perché queste pagine servono a comprendere meglio il senso dei “medaglioni”, la personalità di chi le ha scritte e perché sono parte di una storia che va conosciuta nella sua interezza.

Otto brevi capitali. Medaglioni. Chiamati così perché stanno, ognuno, nella cornice fisica (terra, aria, odori, volti umani) dei luoghi dove più coinvolto fu, dell’animo dei protagonisti, quel momento neutro che consiste nel sentirsi addosso, compresenti, entrambi i sensi – il senso della vita e il senso della morte – indistinguibili, confusi l’uno nell’altro, così da formare un unico fatalismo: “che il calvario finisca, il destino si compia, in qualunque modo, ma si compia”.

Un esempio? Lo sfinimento estremo di Kalinovik.

Kalinovik è datata 1944. Un balzo indietro di due anni (1942) e l’immaginazione vede tutt’altro quadro: i ridenti contorni di Bistrica. Solo due anni o un secolo? Allora sembrò un secolo. Era infatti caduta, frattanto, la mannaia dell’8 Settembre, e aveva sconvolto tutto. Compresa, in quel tutto, la dignità.

E’ per questo che gli storici possono avere liquidato il trauma, i protagonisti no. I protagonisti furono fortunati e sfortunati a un tempo. Fortunati perché trovarono quasi per miracolo una soluzione imprevista, imprevedibile e, per giunta, dignitosa, che non arrise a tanti altri, sfortunati perché ne furono segnati nell’animo sotto forma di una mai più superata avversione a ogni ideologia fanatica.

La pagina nuova nella quale, dopo l’armistizio, ci trovammo iscritti ebbe di autentico solo l’episodio iniziale, il prologo. In pratica soltanto due uomini: Mario Riva, da parte italiana, e Peko Dapcevic, da parte jugoslava. Dopo, quando dalla dimensione = persona si passò all’impresa pianificata e massificata, prevalse la legge di degenerazione che è insita in ogni creazione pluralistica, con o senza ideologia di supporto (nel nostro caso il supporto c’era, era l’ideologia comunista dei nostri “alleati” e prevaleva su tutto). E’ la legge alla quale nessuna moltitudine – popoli, nazioni, stati, assemblamenti – sfugge. Si sa che può sfuggirvi, e resistervi, solo la “persona”.

Oggi pensiamo alla persona, al concetto di persona e all’agire da persona, con rimpianto, e non per nostalgie filosofiche ma per il genere di vita che conduciamo o, per meglio dire, che ci conduce: un trainamento dove l’identità (personale, appunto) progressivamente si logora.

Ecco, allora, come nascono questi ricordi: dal bisogno di inseguire identità perdute e tentare di ritrovarle nella ricostruzione di quei fatti e soprattutto nel ricordo dei tanti, vivi e morti, che fecero corpo con noi. Corpo, non massa. La massa non soffre.

Dietro a questi ricordi c’è un altro stimolo: ripensare la guerra, l’evento-guerra, l’arcano che in sé la guerra nasconde. E’ troppo face l’odierno luogo comune della guerra come solo follia e stupidità della razza umana. La guerra ha pure un senso inafferrabile di grandezza, l’ha sempre avuto, dai tempi biblici, finché l’uomo è stato misura intera di tutte le cose. Oggi non è più così perché l’uomo ha cambiato misura. Finché domina, come oggi domina l’homo oeconomicus, l’uomo è misura misurata, non più misurante.

E’ cambiato l’uomo, quindi è cambiata la guerra, il carattere generale della guerra. Le guerre di oggi sono inseparabili dagli affari, sono grandi investimenti, e ritorno, di capitali.

Da quando finì la guerra fredda, e dagli svuotati arsenali uscirono armi di tutte le specie, dai lanciarazzi alle contraeree portatili, si è andata infittendo una rete di intreccio tra oggettivi conflitti territoriali ed etnici e imprese affaristiche, dove gioca di tutto: mercenarismo qualificato, armi sofisticate, collegamenti con la droga, fanatismi nazionalistici, odi razziali. Guerre a macchia di leopardo sotto gli occhi più o meno indifferenti di un “resto-del-mondo” soddisfatto di sé e orgoglioso della sua pace dinamica, con leve sempre più tecnicizzate.

I lettori, commilitoni superstiti, che sono protagonisti di queste pagine, saranno indotti a pensare che il soffermarsi sul raffronto “guerra di ieri = guerra di oggi” voglia sottendere la guerra stessa come ricorrente funzione di riequilibrio tra il senso “leggero” e quello “pesante” (leggi veritativo, valorativo) della vita.

Il lettore non sbaglia. L’intenzione è quella e nasce dalla convinzione che il senso leggero, ossia le stagioni di lassismo ed edonismo, non possano prolungarsi più di tanto senza richiamare dialetticamente, dalle retrovie ontologiche, reazioni uguali e contrarie.

L’eccedere, ogni eccedere, contiene nel suo embrione germi di guerra. Pegno di pace resta, sempre e solo, il limite. Che si passi il limite nel lassismo e nel rigorismo non fa differenza. E’ sempre un eccedere. La deduzione logica dovrebbe essere che l’eccesso è male, se non accadesse quello che oggi accade. Accade che il primato dell’economia e dell’homo oeconomicus, segnano una vera e propria riqualificazione dell’eccedere. L’eccedere è posto a segno di dinamismo e progresso, a fronte della prudenza e moderazione. Eccesso e moderazione non hanno possibilità di confronto perché non giocano ad armi pari. L’una, la moderazione, ha poco spazio, l’altro troppo.

Come questo squilibrio si concili con la continuamente affermata volontà di pace, resta un rebus. Non è un rebus invece questa verità: non basta l’assenza di guerra a rendere gli uomini più pacifici. Tutt’altro.

Strana coincidenza è quella che corre tra prolungati periodi di pace internazionale (come l’attuale, che dal 1945 è tra i più lunghi della storia contemporanea) e l’aumento della violenza in tutti i campi della società civile.

C’è la violenza consumata tra crimini e aggressioni. C’è la violenza contemplata tra film di guerra, polizieschi a forti tinte, horrors. E c’è, ancora più sintomatico, il crescente aumento della violenza parlata.

Di sicuro tutti ci abbiamo fatto caso, ci siamo accorti che, fra i dati comuni a questa società, c’è, e non ultima, l’aggressività del linguaggio, l’iperbolico vocabolario parabellico (attacco, contrattacco, vittoria, sconfitta, per non dire dell’inflazionatissimo “blindato”) applicato ad ogni tipo di confronto, perfino a quello tra la vita e la morte (“Tizio ha sconfitto il cancro”, “Caio ce l’ha fatta. Uno “combatte la sua battaglia”. L’altro “s’è arreso”, ecc.).

Le più normali azioni della vita sembrano operazioni di guerra, grazie a una voluta terminologia da antagonismo, basata su un tal quale “diritto” a vedere subito eliminato ogni ostacolo che si opponga alla nostra imperativa riuscita.

Ma questo è un clima di pace? Auscultata nel suo profondo, è, questo, un panorama mentale dal quale l’auspicio = proposito Mai più guerre possa ricavare credito?