Potrà forse apparire strano che nel settembre del 1867 Giuseppe Garibaldi – celebre per le sue imprese di combattente, comandante e condottiero sul campo di battaglia – venisse invitato al Congresso della Pace di Ginevra. Ma per i suoi contemporanei, per i leader del movimento progressista internazionale che avevano voluto la sua presenza e che a luglio lo avevano chiamato alla presidenza onoraria dellʼevento, il suo nome era «da solo il più chiaro dei programmi. Esso vuol dire eroismo e umanità, patriottismo, fraternità dei popoli, pace e libertà », secondo una visione che verrà recuperata anche nel Novecento attraverso la tradizione garibaldina.
Nel celebre discorso che pronunciò il 9 settembre 1867 convivevano due elementi tipici della visione e della condotta di Garibaldi: la radicalità utopica e il pragmatismo che puntava alla sostanza dei sistemi politici piuttosto che alla loro forma.
Varrà la pena riportarne qualche stralcio per coglierne meglio gli aspetti salienti:
[…] non posso approvare quella prudenza un po’ timida e un po’ egoista che non vuole nulla arrischiare per alleviare le miserie altrui. […] Così non sono del parere di coloro che dicono: ogni paese ha il governo che si merita.
Noi non vogliamo abbattere la monarchia per fondare le repubbliche: ma vogliamo distruggere il despotismo per fondare sulle sue rovine la libertà e il diritto. Il dispotismo è menzogna: e la menzogna dev’essere odiosa a tutti, anche a coloro che non colpisce direttamente nella loro esistenza e nei loro interessi. Il solo rimedio contro il dispotismo è la fratellanza universale dei popoli liberi.
[…] 1. Tulle le nazioni sono sorelle.
- La guerra tra loro è impossibile.
- Tutte le querele che sorgeranno tra le nazioni dovranno essere giudicate da un Congresso.
- I membri del Congresso saranno nominati dalle società democratiche dei popoli.
[…] 6. Il papato, essendo la più nociva delle sette, è dichiarato decaduto.
[…] 8. Supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col sacerdozio della scienza e della intelligenza.
[…] La democrazia sola può rimediare al flagello della guerra.
[…] Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno, è il solo caso in cui la guerra è permessa[1].
Il ripudio e le denuncia di un sistema politico-economico internazionale che produceva fatalmente le guerre e che da esse si alimentava conviveva con il rifiuto di un pacifismo ideologico, astratto e ipocrita. Emergeva poi la consapevolezza che ogni contesto implica e concede diversi spazi e strumenti di lotta, con la prospettiva della nascita di un Congresso capace di dirimere i conflitti senza ricorso alla violenza e alla scelta di imbracciare le armi: ma lo schiavo – lʼindividuo o il soggetto politico a cui non viene garantito uno spazio legittimo di espressione e a cui non è riconosciuto una dignità – per emanciparsi non può che fare le guerra, che nel suo caso è un diritto e quasi un dovere.
Era una proposta capace di conciliare sovranità popolare, lotta al dispotismo, una prospettiva progressista e lʼidea di rapporti internazionali regolati dal riferimento a principi universali e da organi di arbitrato.
Eʼ stato spesso sottolineato – per lʼassociazione tra papato e oscurantismo dispotico – il forte legame tra il discorso pronunciato da Garibaldi a Ginevra e lʼimminente impresa conclusasi a Mentana e messo in luce quanto alcune enunciazioni fossero funzionali ad attirare lʼattenzione internazionale sul problema di Roma e a conquistare un consenso diffuso negli ambienti democratici e progressisti europei verso lʼiniziativa garibaldina. È sicuramente vero, ma è altrettanto se non più importante valorizzare elementi duraturi e sostanziali, come per esempio la coerenza tra il discorso di Ginevra e le prese di posizione, le dichiarazioni pubbliche e la prassi concreta che caratterizzarono i rapporti di Garibaldi con i popoli dʼEuropa e la sua idea delle relazioni tra i popoli. Vale sicuramente la pena scendere nel concreto, con alcuni esempi che riguardano in particolare il contesto ellenico, quello slavo e la Francia.
Se nel gennaio del 1861, quando ancora il Regno d’Italia non era stato proclamato, Garibaldi scriveva a Nino Bixio dei popoli d’Oriente che racchiudevano «tanti elementi utili contro il comune nemico»[2], nel 1865 si infittivano prese di posizione secondo cui «la causa dei popoli oppressi» era «una sola» e l’obiettivo doveva essere quello di «scuotere i troni di tutti i despoti», perché ormai non si trattava più «di conquistare circoscritte nazionalità», ma era «tempo che tutti i popoli» scendessero «in campo pella santa causa della libertà universale»[3].
Di lì a poco, nellʼestate del 1866, non si combatteva solamente la Terza guerra dʼindipendenza: esplodeva anche l’insurrezione antiottomana a Creta. Com’era accaduto nel 1862, esauritisi gli spazi d’azione in patria, alcuni uomini dell’appena disciolto corpo garibaldino presero la rotta del Mediterraneo sudorientale: Giuseppe Garibaldi non ebbe un ruolo diretto, ma tra ottobre e novembre non mancò di ricordare che «l’Italia nelle sue gioie» non avrebbe dovuto «dimenticare i poveri Greci pugnando valorosamente contro i loro tiranni»[4], ribadendo ancora una volta come sussistessero obblighi di solidarietà e condizioni comuni tali da rendere importante e auspicabile che «il continente greco, l’Albania, l’Epiro e tutte la nazioni cristiane che gemono sotto il giogo ottomano» facessero «eco al grido di emancipazione uscito dall’isola di Creta» per supportare l’agire di «tutti quelli che hanno a cuore la liberazione [dei popoli] oppressi»[5].
Rispetto alle mobilitazioni filelleniche Gilles Pécout ha posto l’attenzione innanzitutto sul concetto di «amicizia politica», che si fonda su legami di fratellanza che implicano mutui doveri di difesa. Ma questo repertorio argomentativo e concettuale dei legami di gratitudine tra i popoli e dall’assunzione di responsabilità dei singoli rispetto alle vicende collettive nazionali e internazionali, era quello che Garibaldi utilizzava in un indirizzo agli amici di Grecia anche per giustificare e promuovere nel settembre 1870 il suo impegno a sostegno della Francia:
In Francia è in pericolo la libertà individuale e quella della nazione, la patria dei principi del 1789 è in pericolo […].
È dovere dell’Italia di volare in soccorso della Francia dopo che Napoleone non la disonora più. […] La Grecia, la madre di Milziade, di Leonida, di Trasibulo, e di Timoleone, la Grecia degli eroi del 1821, la Grecia, la madre della libertà, non può nutrire che simpatia per la Francia. Combattiamo oggi in Francia per la libertà, domani combatteremo in Epiro e in Macedonia.[6]
E rivolgendosi agli amici italiani dalle pagine del «Movimento» di Genova:
Ieri vi dicevo: guerra ad oltranza a Bonaparte. Vi dico oggi: sorreggere la Repubblica francese con tutti i mezzi.
[…] Sì! concittadini miei, noi dobbiamo considerare un sacro dovere soccorrere i nostri fratelli di Francia.
La nostra meta non sarà certamente di combattere i nostri fratelli di Germania […]. Ma noi andremo a sostenere il solo sistema che possa assicurar la pace e la prosperità tra le nazioni.[7]
Rivolgendosi ai volontari dell’esercito dei Vosgi nell’ottobre 1870, Garibaldi li definiva
nucleo cosmopolita che la Repubblica francese raduna nel suo seno, composto d’uomini scelti da tutte le nazioni, [e che] rappresenta l’avvenire dell’umanità, e sulla bandiera di questo nobile gruppo voi potete leggere l’impronta d’un popolo libero, che sarà ben tosto la divisa dell’umana famiglia:
Tutti per uno, uno per tutti!
L’egoismo governa il mondo e l’autocrazia combatte senza dubbio nella Repubblica Francese il germe del diritto dell’uomo ch’ella abborre [sic].
[…] Qual nobile missione è dunque la nostra, o figli della libertà o eletti di tutti i popoli![8].
Gli uomini che difendevano la Repubblica francese appartenevano «alla generazione predestinata» cui la sorte aveva
affidato l’incarico non solo di spazzare la vostra bella patria dall’invasore, ma di stabilire con basi eterne i santi principii della libertà e della fratellanza delle nazioni, che venti secoli di sforzi delle passate generazioni non poterono ottenere, grazie alla tenace diabolica alleanza del tiranno e del prete.
[…] il sangue, le lacrime, la desolazione dei due grandi popoli ingannati, hanno generato questa nuova êra in cui la famiglia umana dimenticherà le pagine insanguinate, che col ferro e col turibolo vanno scrivendo l’impero e il rettile nero, che gli serve di piedistallo[9].
Ma in fondo, nell’ultimo quindicennio della sua vita – che non fu affatto una fase di declino, di ‘disarmo’ e di ritiro dalla storia e che ebbe nel Congresso di Ginevra il suo fondamentale snodo – Garibaldi non fa che riprendere, sviluppare, articolare e riattualizzare la proposta politica consegnata nell’ottobre 1860 al Memorandum alle Potenze d’Europa:
E’ alla portata di tutte le intelligenze, che l’Europa è ben lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue popolazioni
[…] Per esempio, supponiamo una cosa: supponiamo che l’Europa formasse un solo stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua, chi mai si avviserebbe, io ve lo domando, a turbare il riposo di questo sovrano del mondo?
Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per esser prodigati in servizio di sterminio, convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, del miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannati dall’egoismo del calcolo, e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima e della materia.[10]
E dopo il 1870 Garibaldi, in continuità con il programma enunciato nel 1867 a Ginevra tornava a ribadire che «caduti mezza dozzina di individui sostenuti però ancora da un miliardo di soldati» le nazioni avrebbero potuto «intendersi e stabilire un arbitrato internazionale e strozzare la guerra per sempre»[11].
Del resto Garibaldi tendeva ormai a ragionare non solo su scala nazionale, ma piuttosto a vedere l’umanità divisa in due parti: l’una «mangiante, improduttiva», abituata ad imporre «le sue dottrine con le manette, torture, cuffia del silenzio, roghi, […] baionette»; l’altra «dei Mangiati, produttiva o delle braccia» e degli «uomini di genio che lavorano coll’intelletto», usa a propagare «le sue dottrine colla ragione e colla verità»[12].
[1] [Giuseppe Garibaldi], Scritti e discorsi politici e militari, II, (1862-1867), a cura della Reale commissione, Bologna, Cappelli, 1935, pp. 410-412.
[2] Giuseppe Garibaldi, Epistolario, vol. VI, (1861-1862), a cura di Sergio La Salvia, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1983, p. 10. Giuseppe Garibaldi a Nino Bixio, Caprera, 15 gennaio 1861.
[3] Giuseppe Garibaldi, Epistolario, vol. X, (1865-marzo 1866), a cura di Giuseppe Monsagrati, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1997, pp. 74-75. Giuseppe Garibaldi all’emigrazione slava e meridionale, Caprera, 10 maggio 1865.
[4] G. Garibaldi, Epistolario, vol. 11, (aprile-dicembre 1866) cit., p. 269. Giuseppe Garibaldi a Giuseppe Avezzana, Caprera, 4 novembre 1866.
[5] Ivi, p. 275. Giuseppe Garibaldi a Dora d’Istria, Caprera, 8 novembre 1866.
[6] Giuseppe Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III, (1868-1882), a cura della Reale Commissione, Bologna, Cappelli, 1935, pp. 49-50.
[7] Ivi, p. 46. L’indirizzo, datato 7 settembre 1870, veniva pubblicato 4 giorni dopo.
[8] G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III cit., pp. 53-54. Ai soldati dei Vosgi, Amanges, 17 ottobre 1870.
[9] Ivi, p. 69. All’Esercito dei Vosgi, Dijon, 20 gennaio 1871.
[10] Giuseppe Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. I, (1838-1861), a cura della Reale Commissione, Bologna, Cappelli, 1935, pp. 338-340.
[11] G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, vol. III cit., p. 548. Sulla Lega della pace, s.l., s.d.
[12] Ivi, p. 422. Massime, sl., s.d.