UNITÀ ITALIANA E LEGGI ELETTORALI Angelo Grimaldi

L’unità d’Italia si realizzò grazie all’intervento di una ristretta minoranza di intellettuali democratici e repubblicani, di borghesi liberali e conservatori, mentre al processo di unificazione non parteciparono le masse contadine e il proletariato urbano, oppresse dall’ignoranza e dalla miseria. Di conseguenza, l’unità del Regno d’Italia si realizzava sulla base di una frattura tra la borghesia, che si apprestava ad amministrare lo Stato e le masse rurali che imparavano a conoscere le nuove istituzioni attraverso l’esattore delle tasse e il carabiniere.

Dopo la costituzione del Regno d’Italia la classe dirigente italiana dovette affrontare la modernizzazione del Paese: unificare i sistemi legislativi, fiscali e monetari, promuovere l’istruzione elementare, promulgare i nuovi codici (civile, di commercio, di procedura civile, penale), organizzare il sistema amministrativo e l’amministrazione pubblica. Erano inoltre presenti i problemi di politica estera come l’annessione del Veneto e di Roma rimaste sotto la sovranità austriaca e pontificia.

Accanto a questi problemi, all’indomani della proclamazione dell’unità, il regno d’Italia era un paese di 22 milioni di abitanti, per la maggior parte contadini (piccoli proprietari, affittuari, mezzadri, braccianti) in condizioni di estrema arretratezza. In tali condizioni viveva il meridione e le isole: poche strade, ferrovie inesistenti, vaste zone incolte, analfabetismo diffuso.

“… Infatti, solo il 2-4% della popolazione parlava l’italiano: tutti gli altri conoscevano solo il dialetto, incomprensibile a chi era di una regione diversa. Basti dire che alcuni maestri piemontesi, inviati ad insegnare in Sicilia, vennero presi per degli inglesi dalla popolazione locale. L’analfabetismo raggiungeva quasi l’80% della popolazione, mentre nemmeno l’1% aveva un’istruzione postelementare”.[1]

L’industria era prevalentemente assente, forti erano gli squilibri economici e sociali fra le diverse regioni. Cavour e i moderati volevano introdurre in Italia il modello amministrativo inglese allo scopo di consentire alle singole regioni di affrontare meglio i problemi locali. Alla fine il timore di vedere naufragare l’unità appena raggiunta fece accantonare i principi dell’ordinamento giuridico-amministrativo dell’Inghilterra e si preferirono i principi di un ordinamento giuridico basato sull’accentramento amministrativo.

Sul costo dell’Unità scrivono C. Salinari e C. Ricci:

… E’ noto come, infatti, all’Unità si fosse giunti attraverso una serie di successive annessioni al Piemonte dei vari Stati italiani preesistenti. Il desiderio di bruciare i tempi e di mettere l’Europa di fronte a un fatto compiuto e, soprattutto, la ferma risoluzione di Cavour e dei moderati di contrastare, sino a tacitarla, l’iniziativa democratica e garibaldina, avevano fatto sì che la struttura del nuovo Stato si venisse sin dagli inizi configurando più come un organismo politico nuovo e originale. Non solo fino al 1864 la capitale del regno rimase a Torino, in una posizione cioè del tutto eccentrica, per raggiungere la quale i deputati dell’Italia meridionale dovevano compiere, dato lo stato delle ferrovie, un viaggio di parecchi giorni, ma il suo primo re continuò imperturbabilmente a farsi chiamare Vittorio Emanuele II. Ciò che più conta e che vennero lasciati cadere i progetti di un assetto amministrativo basato sull’autonomia delle regioni e sul decentramento, elaborati dal Farini e dal Minghetti, e venne per contro adottato un sistema di rigido accentramento, che rendeva i prefetti arbitri praticamente della vita locale, di tipo più napoleonico che francese. Anche la legge elettorale estesa a tutto il paese fu quella in vigore nel Piemonte, dopo il 1848, con il risultato che, dato il più basso grado di sviluppo economico della maggior parte delle altre regioni e in particolare del Mezzogiorno, il già ristretto sistema censitario ne risultò accentuato e il voto divenne, in più di una regione d’Italia, il privilegio di pochi notabili.[2]

Il nuovo parlamento italiano era diviso in due grossi schieramenti politici: la destra e la sinistra. Nella destra si riconoscevano i monarchici (estrema destra) e i liberali conservatori e moderati, mentre nello schieramento di sinistra sedevano all’estrema i repubblicani, i democratici e i garibaldini, mentre la parte più moderata, rappresentata dal Rattazzi e dal Depretis, abbandonato il problema della Repubblica, si dimostrò più disponibile a collaborare con i governi della destra moderata per il raggiungimento della completa unità italiana e il raggiungimento della capitale a Roma.

Destra e sinistra non erano due partiti organizzati, ma erano due correnti di opinioni con la conseguenza che l’appartenenza alla destra o alla sinistra era dovuta alle esperienze culturali, alla sensibilità dei singoli deputati.

Il diritto elettorale era disciplinato da una legge piemontese, il Regio editto sulla legge elettorale 17 marzo 1848, n. 680[3]. La normativa elettorale del 1848 era sostanzialmente censitaria e riservava il diritto di voto ai soli cittadini di sesso maschile di età superiore ai 25 anni con i seguenti requisiti: alfabetismo e il pagamento di un’imposta diretta complessiva di almeno 40 lire in Piemonte (scendeva a 20 in Liguria e Savoia).

Per gli elettori residenti in Sardegna e per alcune categorie (artigiani, industriali, commercianti) il requisito del censo era sostituito da forme di accertamento induttivo della ricchezza, basati sul valore locativo dei beni immobili da essi posseduti. Si derogava al requisito del censo per nove categorie di elettori (magistrati, impiegati civili a riposo dotati di una pensione superiore a 1.200 lire, professori delle università e delle scuole regie e provinciali, ufficiali, liberi professionisti, membri di accademie di scienze e delle camere di agricoltura), ammessi nelle liste elettorali sulla base di un criterio di capacità intellettuale. Il requisito del censo era inoltre dimezzato per ulteriori categorie (notai, titolari della laurea, ecc.).

I deputati, il cui numero era fissato inizialmente in 204, erano eletti in altrettanti collegi uninominali a doppio turno. Era previsto un ballottaggio tra i due candidati maggiormente votati nel caso in cui, alla prima votazione, nessun candidato avesse ottenuto più di 1/3 dei voti degli aventi diritto e metà dei voti validamente espressi.

Completavano la legge la disciplina delle incompatibilità parlamentari e le norme relative all’iscrizione ed alla tenuta delle liste elettorali, devoluta ai comuni. La normativa elettorale subalpina fu parzialmente modificata dalla legge 20 novembre 1859, n. 3778, adottata dal governo presieduto da Rattazzi in virtù dei pieni poteri conferiti con legge 25 aprile 1859, n. 3345, che, estendendo la legislazione piemontese alla Lombardia, aumentò a 260 il numero dei deputati, ampliò le dimensioni dei collegi e le tipologie dei requisiti di capacità per i quali si derogava al censo, ribadendo nel contempo – con alcune eccezioni – l’esclusione degli analfabeti dal diritto di voto. Il numero dei collegi fu poi ulteriormente ampliato, a seguito dell’annessione delle province emiliane e della Toscana, con decreti del governatore dell’Emilia, Luigi Carlo Farini. (25 gennaio 1860) e del governatore della Toscana, Bettino Ricasoli (21 gennaio 1860), cosicché nelle elezioni del marzo 1860 il territorio del Regno fu diviso in 387 collegi, in luogo dei 204 dell’antico Regno di Sardegna. In seguito all’annessione del Mezzogiorno, delle Marche e dell’Umbria, ratificata con plebisciti, ed alla formazione dello Stato unitario, fu definita una nuova legge elettorale politica, con la legge 31 ottobre 1860, n. 4385, che autorizzava il Governo “di regolare con Regii Decreti le circoscrizioni dei Collegi elettorali, per modo che il numero dei Deputati non sia mai minore di quattrocento, e che la cifra media degli abitanti, presa a norma per formare le circoscrizioni, non ecceda mai i cinquantamila”, e con il Regio Decreto 17 dicembre 1860, n. 4513, che approvava una nuova tabella dei collegi elettorali ed estendeva a tutto il Regno la legge 20 novembre 1859, n. 3378[4]. (il numero dei collegi salì a 443).

Ulteriori modifiche sarebbero derivate dall’annessione del Veneto a seguito della terza guerra di Indipendenza, che portò i collegi al numero di 493 (l’annessione di Roma e del Lazio portò i collegi a 508). La normativa elettorale in vigore tra il 1861 ed il 1882 creava una barriera di accesso al diritto elettorale attivo, limitandolo sostanzialmente alle élites politiche e sociali che avevano guidato il processo unitario.

[1] G. Carocci, Storia dell’Italia moderna dal 1861 ai nostri giorni, Roma, Newton Compton Editori, 1995, p. 14;

[2] C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura Italiana, Vol. III, Parte Prima, Bari, Laterza, 1977, pp. 689-690;

[3] Regio Editto del 17 marzo 1848, n. 680, in Collezione Celerifera delle Leggi pubblicati nell’anno 1848, Torino, Tipografia già Favale, 1848, pp. 213-231;

[4] Gazzetta Ufficiale del 1 gennaio 1861