Un fatto storico dimenticato
Mazzini, lo sappiamo, fu un suscitatore di rivolte con le quali intendeva scuotere l’apatia degli italiani che da esse, e dal sangue generoso di tanti patrioti risorgimentali avrebbero dovuto essere spinti ad una rivolta generale tendente all’unificazione dell’Italia in regime repubblicano.
Ed anche se le imprese da lui fomentate molto spesso, per non dire quasi sempre, avevano degli esiti disastrosi, data l’impreparazione degli italiani di allora, a causa della loro arretratezza culturale, a comprendere e quindi condividere le sue idee, egli non si scoraggiava, convinto che alla lunga il sacrificio di pochi valorosi avrebbe alla fine acceso gli animi dei più ed ottenuto il risultato agognato.
Egli affermava infatti che “bisognava educare; e se sulla via dell’educazione dovevano seminar martiri, esuli e patiboli, era dolore tremendo che accettavamo per giungere alla fine”, convinto che “un giorno di sommosse vale più di due settimane di scritti o proclami”.
Ma accadde anche, sia pure raramente, che egli sconsigliasse o rinnegasse o, addirittura, osteggiasse, (come ad esempio la spedizione dei F.lli Bandiera del 1834, la rivolta di Pavia del 24 marzo 1870, un tentativo di spedizione contro Roma nello stesso anno) iniziative di patrioti coraggiosi e convinti della “filosofia” insurrezionalista mazziniana, che apparivano però disperate e perse in partenza.
Fra queste, la “Spedizione al Passo del San Lucio”, quasi del tutto ignorata dalla storia, quale emerge dalle pagine del libro “Addio Lugano bella – Gli esuli politici nella Svizzera italiana di fine Ottocento (1866-1895, Editore Armando Dadò di Locarno)”, scritto da Maurizio Binaghi con la prefazione di Nicola Tranfaglia, reperita, su mia segnalazione, dallo storico prof. Federico Cereghini di Menaggio che ne ha tratto un ampio, pregevole saggio.
Si tratta di una congiura organizzata da Giuseppe (“Joe”) Nathan, figlio di quella Sara Nathan che alla cura di ben 12 figli, ed in condizioni economiche non sempre floride, seppe abbinare, in periodo risorgimentale, una coraggiosa attività patriottica in appoggio a Mazzini che fece di Villa Tanzina a Lugano, ove ella risiedeva, il quartier generale della sua cospirazione allorché era costretto ad abbandonare l’esilio londinese.
Il figlio maggiore, Giuseppe, residente a Livorno, che condivideva il patriottismo della madre, si recava talora ad incontrarla a Lugano e trovato, nel 1869, al suo rientro in Italia, in possesso di materiale compromettente, era stato imprigionato a Milano donde dopo la scarcerazione si era trasferito a Lugano per poter meglio organizzare con Mazzini l’ attività rivoluzionaria in Italia, prendendo poi residenza, quattro anni dopo, definitivamente, a Londra ove il padre Meyer Nathan, tedesco naturalizzato inglese, aveva sempre vissuto.
Ed a Lugano incontrò il conte Giuseppe Bolognini, venticinquenne residente a Pavia che aveva dovuto lasciare la città e rifugiarsi nel Canton Ticino dopo la fallita insurrezione del 24 marzo 1870 durante la quale con alcuni gruppi di soldati disertori, frutto della propaganda mazziniana negli ambienti i militari (ricordiamo il giovane Garibaldi arruolatosi nella Marina sarda per diffondervi le idee repubblicane, ed i fratelli Bandiera che, pur ufficiali nella marina austriaca, ne erano stati sedotti), aveva tentato di assaltare le caserme inneggiando alla repubblica.
Da quell’incontro nacque l’idea di organizzare gli italiani che avevano partecipato alle fallimentari insurrezioni esplose fra il marzo ed il giugno 1870 oltre che a Pavia, a Piacenza, Catanzaro, Lucca e Reggio Emilia, e che avevano trovato rifugio a Lugano, per un audace progetto insurrezionale destinato a suscitare la rivolta degli italiani.
Idea apertamente osteggiata da Mazzini che ne prevedeva il fallimento perché slegata da un’iniziativa popolare nelle grandi città, come emerge dalle sue lettere del 2 e 16 maggio 1870 da Genova con le quali raccomandava alla madre Sara “cercate di tener fermo Joe”, “tenete fermo Joseph”.
Raccomandazione inascoltata da “Joe”, ma, quella volta, anche dalla madre che, si dice, addirittura finanziò l’impresa.
Sta di fatto che nella primavera del 1870 si parlava apertamente, ed imprudentemente, da parte dei patrioti italiani rifugiati nel Canton Ticino, di un’imminente spedizione in Italia per infiammare la penisola, tanto che il governo cantonale ticinese, per non compromettere le relazioni di buon vicinato con l’Italia, impose loro con una ordinanza 27 maggio 1870 di trasferirsi a nord, lontano dalla frontiera italiana, fin oltre il S. Gottardo.
Ma l’ordine non fu rispettato ed anzi il 28 dello stesso mese ebbe inizio l’avventura di quella che fu chiamata la “Banda Nathan” capitanata da Giuseppe “Joe” Nathan, formata da una quarantina di uomini delle più varie estrazioni sociali fra i quali, probabilmente, anche qualche malfattore.
Nell’elenco dei 29 arrestati dalla polizia cantonale dopo il rientro della banda in territorio svizzero (le diserzioni erano state una diecina) troviamo infatti 2 “possidenti”, 5 studenti, un medico, un giornalista, un “giovane di studio”, un “raggioniere”, un viaggiatore di commercio, ma anche due falegnami, un “perucchiere”, un calzolaio, un sarto, un caffettiere, un cocchiere, un “salsamentario”, uno scritturale, tre negozianti, un cameriere, un “sonatore” e un muratore.
In gran parte, afferma l’autore, mercenari, che dichiararono di essersi arruolati “colla promessa di lire 5 al giorno e colla assicurazione che tutto era predisposto perché in Lombardia fossero accolti tra le feste della popolazione”.
l mattino del 28 maggio, dunque, un piccolo gruppo di uomini disordinati e senz’armi, una specie di “armata Brancaleone” ante litteram, si mette in cammino da Lugano e sotto la guida di un tal Pietro Lotti (evidentemente, un “passeur”, un contrabbandiere pratico dei luoghi) percorre la Val Colla a nord di Lugano fino a Maglio di Colla ove si unisce ad un altro gruppo di congiurati che, questa volta, “già si armavano di carabinette piuttosto corte”, circa 22 fucili acquistati a Locarno presso l’armaiolo Angelo Bettoli che le aveva trasportate fin lì assieme ad altre carabine vendute da privati ai congiurati italiani.
Avvenuto il congiungimento, la “banda” al completo, capeggiata dal ventitreenne “Joe” Nathan e guidata dal Lotti, all’insegna di un “rosso gonfalone” di cui si parla in un articolo del giornale conservatore italiano “La Perseveranza”, ma del quale non si comprende il significato, si mette allora in marcia salendo da Maglio verso il Passo del San Lucio che a quota 1540 collega la Val Colla nel Canton Ticino con la Val Cavargna in Provincia di Como, e dove passa il confine tra Svizzera e Italia.
Superatolo, i congiurati discendono la Val Cavargna fino a Cusino, a quota 800, ove si introducono nella piccola caserma delle guardie doganali assenti per un giro d’ispezione e requisiscono “”una sciabola, un centurino (?), un gabbano e poche munizioni delle quali fu rilasciata regolare quietanza firmata da “Giuseppe Nathan, capo-banda repubblicano””.
Ma, a questo punto, si scatena la reazione italiana: le guardie doganali, rientrate nella loro caserma e constatato il furto, si lanciano alla ricerca della banda, allarmando nel contempo l’esercito che invia sul posto la 9a e la 10a compagnia della divisione militare di Milano per collaborare alla caccia.
La spedizione si trasforma allora in una marcia disperata per sottrarsi alla cattura dell’esercito italiano.
Perciò da Cusino si dirige verso nord, sui monti sovrastanti il lago di Como dai quali discende poi sulla riva occidentale del lago all’altezza circa di Dongo (un nome che risuonerà tragicamente nella storia italiana 75 anni dopo!) ove, impossessatasi di alcune barche, lo attraversano sbarcando sulla riva opposta presso Bellano ove avviene un breve scontro con i carabinieri che li attendono al varco, dopo di che cerca di raggiungere Colico. Respinta, la banda decide di rifugiarsi i sul monte Legnone – quota m.2600 – ove, resasi conto di non poter sfuggire alla caccia dell’esercito italiano, e, in tal caso, di subirne le dure conseguenze, decide di muovere verso il confine del Cantone dei Grigioni ove, passata la frontiera il 2 giugno 1870, viene arrestata, disarmata, imprigionata e sottoposta a processo. Grazie alle leggi svizzere assai meno severe di quelle italiane, essa non è ritenuta passibile di condanna penale, ed il giudizio si conclude con l’espulsione dalla Confederazione Svizzera di tutti i suoi componenti, a cominciare dal capo-banda.
L’avventura, male organizzata, che non aveva raggiunto i suoi scopi in quanto gli abitanti delle terre italiane attraversate avevano, come in altri casi analoghi, accolto freddamente gli insorti senza manifestare quella solidarietà che gli organizzatori si erano prefissi e si attendevano, era dunque durata sei soli giorni: iniziata il 28 maggio 1870 si era infatti conclusa il 2 giugno successivo nelle prigioni svizzere.
Val la pena di rilevare che, invece, a detta dell’autore del libro, gli svizzeri dimostrarono una certa compiacenza verso quegli esuli italiani fra i quali, commentavano, erano persone importanti (“Nathan, un conte Bolognini ed altri italiani anche Signori”) che alcuni scambiarono addirittura per emuli di Garibaldi che anche nella confederazione elvetica suscitava grande ammirazione.
L’audace, fallimentare impresa della “Banda Nathan” ebbe strascichi sia in Italia che nella Svizzera.
L’ Italia, infatti, criticò aspramente la condiscendenza della Svizzera nei confronti dei patrioti italiani esuli nel suo territorio – soprattutto a Lugano considerata covo di pensieri rivoluzionari – e vi fu addirittura chi pensò (ma non se ne fece nulla) di imporre al Canton Ticino un blocco economico per convincerlo ad una maggiore vigilanza nei loro confronti.
Ma il tentativo della “Banda Nathan” creò dibattito e polemica anche all’interno della stessa Confederazione, fra il governo federale e quello cantonale.
Il primo, infatti, per fronteggiare la minaccia costituita dalla “Banda Nathan” (la cui pericolosità era stata evidentemente sopravvalutata), aveva spostato sul confine italo-elvetico alcune compagnie dell’esercito, ed ora pretendeva dal governo cantonale, al quale addebitava a colpa di non aver ben vigilato sull’attività degli esuli Italiani nel Canton Ticino, il rimborso delle spese sostenute per la loro movimentazione.
Alla fine il governo cantonale risultò soccombente, e gli toccò farsi carico delle spese sostenute dal governo centrale per il trasferimento delle truppe nel suo territorio.
Una lezione di buona amministrazione della quale non sarebbe male se noi italiani tenessimo il debito conto.