UN LIBRO PER CONOSCERE ANITA GARIBALDI E I PERCORSI DELLA SUA MEMORIA Anna Maria Lazzarino Del Grosso

Meritatamente ospitato nella prestigiosa collana “Einaudi Storia”, il volume di Silvia Cavicchioli dal titolo Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi (Torino, 2017) costituisce un contributo d’ora in poi ineludibile per chi voglia approfondire sulla base dei dati storici ad oggi disponibili la conoscenza della figura umana e della vicenda biografica di Anita Garibaldi, così come le circostanze e i protagonisti delle operazioni di memoria pubblica che, con varietà di registri, intonazioni e intenzioni, legati ai tempi e agli ambienti, nel corso del primo secolo seguito alla sua tragica morte, ne hanno alimentato, in Italia come nel natio Brasile, un mito di risonanza mondiale. Basta scorrere velocemente (ma chi ha interessi studiosi non potrà non farne oggetto di vaglio minuzioso e fruttuoso) il ricco apparato di note posto in coda al testo (scelta editoriale consolidata, che tuttavia un po’ sacrifica l’immediata fruizione del patrimonio di sapere che lo sorregge), per avere contezza dell’immane lavoro di ricerca e scandaglio di fonti, in particolare memorialistiche, epistolari, documenti, giornali, prodotti dell’arte figurativa, letteratura critica o popolare, sotteso a ciascuno dei quattro capitoli in cui il volume si articola. Intento dell’autrice è sia, in primo luogo, sceverare dall’immaginario mitografico e all’interno di una tradizione storiografica in parte spuria e imprecisa, i fatti e le testimonianze che consentono di scrivere la “vera storia” di Anita, sia ricostruire e spiegare i tanti percorsi della memoria a lei dedicati, in Italia, Brasile e non solo, nel periodo che corre tra la metà del secolo XIX e le celebrazioni mussoliniane del 1932, ispirate dalla ricorrenza del cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi e orientate da finalità connesse agli obiettivi propagandistici del regime. L ‘inaugurazione a Roma del monumento equestre di Mario Rutelli, il 4 giugno 1932, posto sul Gianicolo vicino a quello del suo sposo, e l’inumazione solenne, avvenuta due giorni prima, delle sue tormentate spoglie alla base di esso, intesero cristallizzare in senso fascista la nazionalizzazione della sua figura eroica e già popolarissima, ma al tempo stesso senza volerlo l’hanno consegnata, così innalzata in un luogo simbolo di interesse universale, al futuro di libertà finalmente consono agli ideali e al segno principe del suo sodalizio amoroso con l’Eroe dei due mondi, dischiuso dalla caduta del nazifascismo e dalla realizzazione, nella seconda patria che aveva fatto propria, del sogno repubblicano e democratico che li aveva uniti.
Emblematiche dell’incompatibilità dell’Anita reale con i tentativi di ingabbiamento in icone precostituite, in questo caso platealmente funzionali a obiettivi politici contingenti del tutto opposti a quelli perseguiti da Garibaldi e appassionatamente fatti propri dalla giovane brasiliana, sono le parole con le quali la Cavicchioli conclude il libro, a commento del discorso che Anio Bignardi, segretario dell’Unione Lavoratori dell’Agricoltura, pronunciò il 20 dicembre 1939 in occasione della posa della prima pietra di un borgo agricolo del Ferrarese a lei intitolato, pretendendo di accostarne il martirio a quello di quattro fascisti morti in uno scontro con i socialisti: “ogni tentativo per semplificare la sua vicenda umana, per stereotiparne l’immagine, ieri come oggi, sembra infrangersi di fronte allo spirito indomito di Anita, donna forte, coraggiosa, libera”.
Fortezza, coraggio e anelito alla libertà, individuale e collettiva, sono infatti le caratteristiche salienti della sua personalità, non solo come consegnata al mito, ma anche reale, che emergono nel corso dello svolgimento del primo denso capitolo del libro, inteso a restituirne il ritratto dinamico attraverso il susseguirsi delle notizie fattuali fornite da una molteplicità di testimonianze. Vi sono ripercorsi alla luce della storiografia più attendibile, brasiliana per quanto riguarda le poche notizie disponibili sulla famiglia e sui primi diciotto anni della sua vita a Laguna, fino al suo incontro con Garibaldi, e prevalentemente italiana con riferimento al decennio successivo, integrata dal vaglio diretto di una quantità significativa di fonti e documenti, i diversi passaggi della breve e avventurosa esistenza della giovane catarinense. La narrazione, che si avvale di una scrittura avvincente e capace di sapienti effetti visivi, con una precisione descrittiva che ne assimila il risultato a un efficace “reportage” giornalistico, si fa sempre più dettagliata nel dipanarsi dell’ ultimo decennio della vita di Anita, indissolubilmente intrecciata a quella di Garibaldi e proprio per questo assai meglio illuminata rispetto alla ancor oggi alquanto oscura fase precedente.
È l’epopea brasiliana, che la vede, tra l’agosto del 1839 e i primi mesi del 1841, condividere senza esitazioni, a fianco del suo uomo, combattimenti, rischi drammatici e penosi disagi a sostegno della rivoluzione “farroupilha” della Repubblica del Rio Grande do Sul, dopo la caduta di quella catarinense, a mettere in luce il suo spirito libero, indomito, la sua audacia e determinazione, il suo coraggio eroico e un amore assoluto per colui che ha scelto di seguire a dispetto di ogni convenzione, come anche la sua sollecitudine materna per il piccolo Menotti, messo al mondo nelle più difficili circostanze. Ce ne informano soprattutto i brevi ritratti usciti dalla penna di Garibaldi negli anni immediatamente successivi alla sua morte, e le varie redazioni delle sue Memorie, compresa naturalmente la fortunata versione di Dumas, anche se all’interno di esse – avverte la Cavicchioli – bisogna saper distinguere “il grano dal loglio”, ovvero verità fattuali e leggenda agiografica. Questi tratti della sua figura, confermati dalla sua partecipazione alle vicende del 1848-49 e dal suo drammatico epilogo, risultano indiscutibili. Nel periodo uruguayano, malgrado le migliorate condizioni di vita (una vita comunque modesta e ai limiti della povertà) e l’ortodossia sociale assicuratale dal matrimonio certo più sofferto per le lunghe lontananze di Garibaldi impegnato a sostenere la lotta della Repubblica Orientale contro gli attacchi delle forze rosiste, è la cifra della maternità, destinata anch’essa a divenire parte del suo mito, a contrassegnarla. In questi anni nascono a Montevideo gli altri suoi figli, Teresita, Rosita e Ricciotti, ed a loro Anita si dedica interamente. La morte della piccola Rosita, il 23 dicembre 1845 – racconterà Garibaldi nelle Memorie – rischia di farla impazzire dal dolore: per consolarla egli la fa venire al campo dove è di stanza con la Legione Italiana, all’indomani della glorioso battaglia di San Antonio del Salto, ma non risulta una sua partecipazione alle attività militari di quei mesi.
Cavicchioli mette l’accento sul rapporto di parità che ha caratterizzato in tutta la sua durata la relazione tra Giuseppe e Anita, una parità conforme al carattere di lei ma anche alle convinzioni di lui sul valore, sul ruolo e sui diritti della donna. Rapporto che viene ulteriormente in luce nella fase italiana della vita di Anita: è sposa, madre, ma anche collaboratrice politica, come mostra la lettera che, appena giunta a Genova, sebbene analfabeta, si fa scrivere, probabilmente dal suo ospite Giuseppe Matteo Antonini, console dell’Uruguay, per il marito rimasto ancora a Montevideo, e nel corso della ritirata da Roma di nuovo preziosa collaboratrice militare, quasi fosse uno dei suoi ufficiali. Dopo la nuova separazione seguita alla partenza di Garibaldi, poco dopo il suo arrivo a Nizza, per unirsi con i suoi volontari alla forze rimaste in guerra contro l’Austria, l’ Anita amante avventurosa e quando necessario intrepida guerriera al fianco del suo Generale, sprezzante del pericolo e pronta a ogni sacrificio, riprende il sopravvento e la nuova maternità che si annuncia nell’ultima fase è vissuta, fino alla malattia e malgrado essa, con la stessa nonchalance di quando portava in grembo Menotti, certo fiduciosa che tutto sarebbe andato bene come allora. Anche in queste scelte, così in contrasto con il cliché ottocentesco, e in parte ancora odierno, dei doveri femminili e materni in particolare, è la sua sola volontà ad imporsi, incurante persino, nelle ore più difficili, delle preoccupazioni e delle preghiere del marito, e però coerente, come si esalterà specialmente nella prima fase della costruzione della sua memoria, ad opera in primo luogo di Garibaldi ma anche di molti altri protagonisti della difesa della Repubblica romana, con il supremo valore garibaldino del sacrificio di sé fino al martirio per la causa della libertà della patria e dei popoli fratelli.
Al canone letterario del martirologio, inaugurato al tempo della Rivoluzione francese, e rimesso in voga nell’Italia risorgimentale, soprattutto dai democratici, anche grazie al diffondersi dell’editoria popolare e all’accesso ad essa di un numero sempre più alto di lettori e lettrici, è dedicato il secondo capitolo del volume, che passa in rassegna la produzione letteraria e ogni altra modalità di comunicazione al pubblico intese a promuovere, facendone il veicolo di un messaggio patriottico, il culto dell’eroina, la cui tragica fine è addebitata ai nemici dell’Italia: l’Austria, il Papato, la monarchia borbonica, e naturalmente anche una Francia traditrice dei valori repubblicani. E’ lo stesso Garibaldi a inaugurare questo filone commemorativo, esercitando fino alla fine – rileva l’Autrice – uno stretto controllo sulla memoria di Anita, volutamente lasciando in ombra due momenti cruciali della sua storia: le circostanze iniziali della loro relazione, che ponevano il problema del matrimonio di Anita col calzolaio Manoel Duarte, e quelle, tanto discusse dai denigratori del Generale, della sua morte e sepoltura presso la Fattoria Guiccioli. La novità è rappresentata – nota la Cavicchioli, che del resto ha già menzionato nel capitolo precedente la partecipazione di molte donne alla difesa della Repubblica romana, a vario titolo, comprese, come nel caso della giovane umbra Colomba Antonietti, uccisa sui baluardi di San Pancrazio, le azioni belliche – dall’estensione al femminile dell’immaginario del martire patriota, di cui Anita diventa il simbolo per eccellenza. In ciò l’Autrice evidenzia un momento “di modernizzazione della politica e dei linguaggi nel campo dell’editoria e della letteratura”. La rappresentazione di Anita resta peraltro e resterà ancora a lungo subordinata a quella di Garibaldi, e il mito che precocemente ne risulta si condensa tutto nella scena del suo calvario finale, dando luogo a una figura di eroismo romantico, che si consolida e resiste nel tempo, divenendo icona universale del martirio democratico dell’Ottocento, e che si riverbera sullo stesso Garibaldi, martire nel dolore della sua perdita e in tutte le altre sofferenze patite per la causa nazionale. Al canone martirologico si associano le liturgie funerarie, volte a dare degna sepoltura ai corpi dei caduti, istanza molte volte espressa da Garibaldi nei confronti dei propri compagni: un tema acutamente sviscerato nel volume per introdurre il racconto delle peripezie dei resti di Anita, dal primo luogo di frettolosa sepoltura, che diede origine ad orribili sospetti, alla traslazione nel cimitero di Sant’Alberto, poi nel sacello della vicina Chiesa parrocchiale di San Clemente, in attesa dell’arrivo di Garibaldi, che con i figli Menotti e Teresa e con l’amica Speranza von Schwartz, Bixio e Bonnet, nel settembre 1859 si reca a rilevarli per trasferirli al cimitero di Nizza, dove rimarranno fino al 1931, allorché ha inizio l’ultimo e definitivo viaggio, dapprima a Genova e poi, sfumata la destinazione di Caprera, a Roma.
Dell’eco internazionale dell’immagine di Anita martire diffusa da Garibaldi e dai suoi compagni, trasfigurata in eroina romantica soprattutto dalla penna di Dumas, eco amplificata dalla popolarità conquistata dal Generale con l’impresa dei Mille, la Cavicchioli si occupa nel terzo capitolo, dal titolo “Modelli di rappresentazione di un’eroina internazionale”. Garibaldi e la sua compagna, rappresentati in chiave romantica, si “popolarizzano” grazie a una serie di operazioni editoriali, puntualmente richiamate e illustrate nel volume, anche nell’opinione pubblica inglese e francese, oltre che in Italia, nonché grazie al diffondersi di nuovi dispositivi mediatici “a forte impatto visuale”.
Con la morte di Garibaldi inizia il periodo della gestione pubblica della memoria risorgimentale e di Anita in particolare; si fa strada nelle versioni ufficiali l’immagine conciliatoria dell’Eroe dei due mondi, “rivoluzionario disciplinato” ormai assunto nel Pantheon dei padri della patria. Inizia però anche un interesse propriamente storiografico per la sua biografia e per quella di Anita, al riguardo non più frenato dai veti di Garibaldi o dal timore di “macchiare” la fama di virtù di entrambi, in particolare sulla questione del primo matrimonio e sulle congetture malevole concernenti la morte e la sepoltura della giovane, del resto sfatate da un’inchiesta giudiziaria. Sono così passate in rassegna e confrontate fra loro le principali biografie dedicate a Garibaldi negli ultimi due decenni dell’Ottocento, comprendenti diverse pagine su Anita: da quella di Guerzoni, a quelle di Jessie White Mario e di Speranza von Schwartz. Nell’opera della White Cavicchioli scorge l’emergere, con la sua sottolineatura del ruolo di Anita nelle vicende garibaldine, di una volontà di esaltazione dell’apporto femminile alle lotte risorgimentali, e rileva anche il primo palese accenno all’esistenza di un primo marito di Anita. Ma inizia anche negli anni ’80 dell’Ottocento la serie delle pubblicazioni, dei monumenti, delle vie, piazze e delle produzioni iconografiche a lei esclusivamente dedicati: la prima biografia, di Giuseppe Bandi esce nel 1889, sotto lo pseudonimo di “Piccione Viaggiatore”, nel cinquantenario della morte, celebrato a Livorno; il primo monumento italiano le è intitolato a Ravenna nello stesso anno. Accanto al cliché sacrificale, che permane, si fa strada una raffigurazione più variegata, che comprende gli episodi della sua vita di eroina guerriera, in Sudamerica, e il suo duplice ruolo di compagna devota dell’eroe dei due mondi e di madre virtuosa, da erigere a modello. Cavicchioli rileva come entrambe le caratterizzazioni, popolarissime, si siano affiancate nella seconda metà dell’Ottocento, ciascuna prevalendo sull’altra a seconda del contesto storico, e ne analizza il riflesso nell’abbondante iconografia del periodo, in pagine di grande interesse, specie per il lettore non specialista di storia dell’arte. Un altro tema sviscerato è quello del valore pedagogico attribuito all’ icona di Anita in questi anni di costruzione del carattere nazionale nella sua versione femminile; non manca il rilievo della sua eccentricità rispetto al modello di virtù domestica, sottomissione al marito e totale dedizione all’educazione dei figli diffuso in Italia dalla classe dirigente post-unitaria, che spiega l’assenza di riferimenti al suo nome, a volte dovuti anche alla sua condizione di “straniera” o alla sua condizione di incolta, in diversi repertori di donne esemplari della storia, puntualmente richiamati nel volume, dall’esplicito intento pedagogico. Tra le collaboratrici del giornale mazziniano “La Donna”, che anch’esso mirava a formare le nuove cittadine italiane, solo Anna Maria Mozzoni e Giulia Cavallari Cantalamessa la menzionano in termini lusinghieri, esaltandone, come fa in particolare quest’ultima, la specificità femminile, mentre Garibaldi ne aveva soprattutto elogiato le qualità virili tipiche del soldato.
Sarebbe invece spettato al fascismo proporre alle giovani italiane l’immagine di un’Anita moglie e madre amorevole, depotenziandone ogni carica eversiva del modello femminile tradizionale. Alla storia e alle modalità di questa operazione, che ebbe tra i protagonisti il nipote Ezio Garibaldi, generale della Milizia e magna pars delle celebrazioni del 1932, è dedicato l’ultimo capitolo del libro, aperto da un diffuso paragrafo sulle molteplici iniziative di conservazione della memoria di Garibaldi e di Anita nei luoghi della loro sofferta e infine tragica ritirata da Roma e in particolare a Ravenna e in tutta la Romagna, dove si afferma un radicato culto popolare, con vere e proprie liturgie, vivo ancor oggi, alimentato dai prevalenti sentimenti democratici e repubblicani dei suoi abitanti. Sulle liturgie funerarie utilizzate dal regime fascista per accrescere il consenso al progetto di un’Italia “grande” e collegare le onoranze ai caduti della Grande Guerra, ai martiri del Risorgimento e ai camerati della prima ora, all’affermazione della continuità tra il volontarismo patriottico garibaldino, l’eroismo risorgimentale e il volontarismo delle camicie nere l’Autrice si sofferma nelle suggestive pagine finali del volume, che illustrano con ricostruzioni di grande efficacia, fondate su documentazione di prima mano e su testimonianze di osservatori diretti, sia la complessa vicenda dell’erezione del monumento romano e delle trasformazioni subite dall’originario progetto presentato dallo stesso Rutelli nel 1907 per approdare alla versione definitiva, sia tutto l’iter della traslazione dei resti di Anita fino al loro approdo finale.
Come già nel primo capitolo, con le straordinarie pagine che, sulla scorta dei dati forniti dalla memorialistica e soprattutto del risultato dell’appassionato lavoro di ricerca “sul campo” svolto nell’ultimo decennio dell’Ottocento da Raffaele Belluzzi, consentono al lettore di seguire quasi ora per ora, il percorso e le soste di Anita e Garibaldi, da Roma alle Mandriole, e quasi di vederla, come in un filmato, persino nel suo abbigliamento, dapprima ancora amazzone intrepida e focosa e poi via via trasformarsi in una maschera di sofferenza, anche quest’ultima parte chiama ad assistere allo scenario dinamico che conclude la “vera storia” dell’Anita mortale, con il particolareggiato resoconto dell’ultimo viaggio delle sue povere spoglie da Nizza fino al monumento destinato ad accoglierle, delle sue tappe, del corteo che l’accompagna, della cerimonia di inumazione, il 2 giugno 1932, definita dai giornali, per la sua trionfalità e partecipazione popolare, “apoteosi di Anita”, e di quella, più severa e riservata, dello scoprimento del monumento, il 4 giugno, per mano della regina Elena. Il discorso di Mussolini, tutto teso alla riaffermazione della continuità tra garibaldinismo e fascismo, nel solco di una lettura già affermatasi nella storiografia del tempo, che la voleva “eroina dell’amore” per il marito e i figli, oscurando i tratti libertari e anticonvenzionali della sua biografia, conferiva alla sua icona destinata a rinverdirne il mito, in accordo con la raffigurazione che gli stesso aveva voluto, imponendo allo scultore l’aggiunta del figlioletto sul braccio, il carattere sublime di moglie e madre esemplare nella sua disponibilità sacrificale, perfettamente in linea con l’ideale femminile proposto dal fascismo.
Cavicchioli rileva tuttavia come l’Anita reale, ribelle, forse bigama, rivoluzionaria, straniera, e come Garibaldi appassionata internazionalista, rappresentasse pur sempre un personaggio scomodo per il regime, e come al di là delle intenzioni che le avevano determinate, quelle celebrazioni abbiano avuto l’effetto sia di riattizzarne la memoria presso gli eredi della tradizione democratica, sia di proporla come simbolo di forza e coraggio alle donne italiane, per la prevalente immagine di ardimento che la statua equestre di Rutelli era riuscita comunque a comunicare e per lo stupefacente esempio di successo postumo toccato a una donna, umile nelle sue origini, ma, come la definisce l’Autrice, “donna di ideali”.