Annita Garibaldi Jallet
Non possiamo aprire questo nuovo numero di Camicia Rossa senza evocare la tragedia che abbiamo appena attraversato e le cui minacce sono ancora ben presenti: la ripresa del contagio è sempre possibile in Italia, le difficoltà economiche e sociali sono molto accresciute rispetto alla situazione di inizio anno, l’espansione della pandemia nel mondo globalizzato ci colpisce direttamente e non solo umanamente. In una situazione così nuova per la maggior parte di noi, le parole che abbiamo per esprimere i fatti e i sentimenti sono quelle della guerra. Eppure sono parole non appropriate. Ci riportano a eventi che avremmo commemorato, se ne avessimo l’animo: l’80° anniversario del 1940, anno dello scoppio di una guerra mondiale voluta, dichiaratamente, per volontà di potenza. Non era bastata una prima guerra mondiale per allarmare le coscienze. Bisognava ancora aggiungere il genocidio di massa, la rovina dell’economia, l’urlo di dolore di popolazioni martoriate, milioni di esseri umani ridotti in condizioni indicibili. Ma nella guerra c’è la volontà di scatenarla, e persino di viverla: una esaltante epopea per soldati e soprattutto ufficiali infervorati da visioni di eroismo, di gloria. Almeno all’inizio. Almeno per coloro ai quali non basta la laboriosa, tanto difficile, spesso ingiusta, vita quotidiana. La propaganda, il fanatismo… niente di tutto questo in un’epidemia, poi pandemia, per la quale non troviamo le parole. Coloro che combattono in prima fila, che muoiono facendo il loro dovere li chiamiamo eroi, è quanto di meglio abbiamo da offrire loro.
Costruire la società di pace che vogliamo richiede di trovare altre parole. Anche la parola “pace” come antitesi della guerra non ci basta. La pace è un bene in sé e una società che vorrebbe farne il suo valore fondante ne deve trovare le parole giuste. Forse accantonando la parola guerra, per opporre la pace alla violenza, che non è solo dell’uomo contro l’uomo sul campo di battaglia ma dell’uomo che offende la dignità umana, che ruba, pratica l’usura, la distruzione della natura; dell’uomo che espone, e lo chiama turismo, cadaveri di città ad altri uomini che pagano per questo. Foreste e boschi distrutti, corsi d’acqua sporcati. Violenza dappertutto. Ricorderemo dei giorni di quarantena le città pulite, gli uccelli festosi e cantanti per la primavera ritrovata tra gli alberi dei viali cittadini. La pace è possibile, va costruita.
La guerra, lasciamola per conto suo. Il filone di pensiero che guida, di solito, i nostri libri di storia, è questo: periodi di guerra, periodi di pace (relegati alle pagine di economia, sviluppo del commercio, dei trasporti). Questo diamo da leggere ai nostri bambini. Quanti errori! Alla pace si oppone spesso la rivoluzione, le insurrezioni dei popoli, che sono tutt’altra cosa. La guerra può diventare allora un modo per distogliere l’attenzione dei popoli dalla loro condizione, una politica. Si vede in America Latina, in Asia, in Africa. Andiamo oltre la guerra, che offusca la riflessione dei popoli che la vivono in modo continuo, e intanto non vendiamo più armi, almeno noi europei che in parallelo vogliamo proporre un modello di civiltà! Costituzioni, democrazia… con le armi in mano? Ma vogliamo scherzare?
Vani i richiami di chi auspicava per l’Italia la neutralità nel conflitto che il Reich hitleriano stava dichiarando al mondo e l’uscita del Duce dalla tremenda morsa dell’alleato. Ma non era troppo tardi? Un paese democratico avrebbe potuto opporre le sue istituzioni, il suo popolo a un dittatore seppur inferocito come Hitler ma una dittatura non lo poteva fare senza rinnegare se stessa. La spirale della violenza era in atto, così come l’ebbrezza delle parole urlate, la paura dell’altro. Meglio un fascista che un comunista, perché c’è uomo e uomo, e uno che non la pensa come te che uomo è? Nonostante le apparenze, l’Italia s’inabissò, giorno dopo giorno, nella sconfitta, cominciò a odiare tutti, gli inglesi, i francesi, gli americani, colpevoli, certo, della sconfitta italiana. La forza vitale del nostro popolo fece sì che si rinacque, ma fu per la lungimiranza dei suoi dirigenti di allora che venne evitata l’altra guerra, la guerra civile. Alcuni lanciarono parole nuove (federalismo europeo per esempio) in vista della pace. La nostra Costituzione dice che la nostra società è fondata sul lavoro. Ma il lavoro da solo non è pace. La stessa Carta afferma che l’Italia ripudia la guerra. Ma non è proprio quella la definizione “per antitesi” della pace che vogliamo costruire?
Ci siamo sentiti in queste settimane protetti dai tanti giovani in divisa che hanno, con la protezione civile, con tante associazioni di volontariato, tentato di farci passare in maggiore sicurezza le settimane della tragedia più acuta. Ma era proprio necessario che avessero in mano tante armi? Per sparare al virus, che invece teme solo le mascherine bianche? Anche le immagini sono parole. Invece adesso ci vuole una forza riconoscibile, quella della polizia, per lottare contro la violenza che fa il nido sulla miseria; in modo che gli aiuti che abbiamo chiesto alle istituzioni europee, i prezzi che pagheremo tutti per uscire dalla crisi, non siano destinati a chi approfitta di tutte le tragedie.
Per gli anziani soli chiusi in casa, per i bambini senza parchi, per le persone accatastate in angusti alloggi, per le carceri sovraffollate, per gli ospedali carenti, per istituzioni operose, ci vogliono parole e gesti nuovi: di pace, cioè di solidarietà, di lavoro equamente retribuito, di formazione professionale, di strutture sociali.
Abbiamo avuto tutti il tempo di pensare perché abbiamo avuto e abbiamo ancora paura. Non perdiamone la facoltà. Chissà quanto hanno sognato un mondo di pace i nostri soldati in guerra, e questo mondo c’è stato. Ha perso lo slancio iniziale. Lo abbiamo intravisto di nuovo in questi giorni, e nemmeno lo possiamo rinchiudere nelle frontiere d’Italia o di Schengen. Volere la pace, certo, è sempre un poco sognare. Ma perché no?