Elena e Arturo Colombo con Annita Garibaldi

LA TESTIMONIANZA DI ANNITA GARIBALDI

«Negli ultimi giorni del febbraio 1982 mi arriva a Bordeaux l’invito per il convegno che si sta per tenere a Bergamo dal 5 al 7 marzo, dal titolo “Garibaldi cento anni dopo”. E’ uno dei primi convegni di studi svoltosi in Italia in occasione del centenario della morte di Garibaldi. La relazione di apertura mi piace per il suo titolo originale, direi allegro: l’Eroe dei due mondi ha ispirato Arturo Colombo ad intitolarla “I due mondi dell’Eroe”. Passa un po’ di vento fresco sulla retorica nazionale.
In giornata il professore mi chiede, col suo modo gentilmente brusco e diretto, che Garibaldi sono, perché ce ne sono tanti e ci si perde. Lo dico, e la sera stessa sono ospite di Arturo e di sua moglie Elena a casa loro con i relatori al convegno. Sento l’interesse per la figura di un Garibaldi dimenticato, mio padre. Un poco intimidita da tanti professori, io che sono appena “Maitre de conférence” a Bordeaux, sono messa a mio agio da Arturo che narra ridendo che a Bergamo si aspettava con una qualche apprensione una Garibaldi sicuramente in camicia rossa, ed un poco rossa in generale, mentre io, da buona militante dell’Unione europea, ero arrivata con il distintivo di Solidarnosc, spiazzando così i cronisti sia de “l’Eco di Bergamo” che di “Bergamo oggi”. Avendo rotto il ghiaccio con la risata, mi ritrovo l’indomani con il professor Colombo a narrargli di mio padre, della sua odissea culminata nei campi di concentramento di Dachau e con la morte il 4 luglio 1946 per le sofferenze patite. Da lì nascono due ricerche, una specifica su Sante, e l’altra sulla configurazione della famiglia Garibaldi che sfugge a tanti, anche ai più rigorosi tra gli studiosi.
In una sua lettera a me indirizzata dell’11 marzo 1983, Arturo evoca il convegno siciliano della Società di Storia Patria a Palermo, “Garibaldi in Sicilia nel 1860 al quale mi fa tosto invitare, e ancora una volta osservo il suo dono per i titoli, nati dal suo essere anche giornalista, dal saper comunicare. “Garibaldi, un pensiero per l’azione” scrive, molto più efficace del solito “il pensiero e l’azione”. Svolge un’attenta analisi del pensiero di Garibaldi, con le sue ingenuità e le sue tortuosità, ma sempre, sottolinea, con il senso dell’etica della responsabilità, la religione della lealtà, l’appello al risveglio della coscienza pubblica. Un bel richiamo per i tempi, e non solo quelli, di più di trenta anni fa. Mi apre anche le porte del convegno su “Garibaldi e l’America Latina” a Roma presso l’Istituto Latino Americano. Non posso qui citare tutte le occasioni che ha creato per me. Evoco però un convegno a Bucarest del 1985, dove incontro Luigi Lotti e rinnovo gli incontri con studiosi europei ed oltre, iniziati al convegno romano del 2 giugno 1982, quello del Bicentenario. In occasione del convegno di Bucarest, tanto ricco di insegnamenti sui rapporti tra l’Europa orientale e l’Italia, ci regala un “Diario di Bucarest” pubblicato nella Nuova Antologia del luglio-settembre 1985, dove scrive: “chiunque è in grado di verificare come incontri del genere non contrassegnano inutili minuetti di accademia, ma riescono ad acquistare una valenza immediata …Qui si coglie abbastanza alla svelta, trasparente, quasi palpabile quanto giovino questi “contatti”, questi “scambi”, che al riparo di tematiche apparentemente “neutre” (qui Mazzini e Garibaldi) diventano spunti d’avvio e fattori di spinta, per mantenere, o addirittura promuovere, delle “aperture” altrimenti impensabili eppure utili da entrambi le parti.” Il ruolo della cultura, insomma, e particolarmente quella risorgimentale che vide Mazzini letto nell’Europa orientale più di quanto, forse, lo fosse da noi, e Garibaldi “aspettato” dai popoli dei Balcani, prima e dopo la Spedizione dei Mille, come la spada che avrebbe liberato tutti i popoli schiavi. Ripensai a questa sua osservazione lungimirante qualche anno fa in Ucraina quando un mio giro di conferenze voluto dalla nostra Ambasciata fu bruscamente interrotto. Forse non sfuggiva più l’impatto possibile di un discorso storico-culturale relativo a Garibaldi a Costantinopoli, forse non tanto neutro se i ragazzini delle scuole mi consegnarono poi in ricordo i loro disegni… rappresentavano tutti la ninfa Europa che cavalcava il suo toro.
Ma non eravamo patiti del solo Garibaldi, si parlava di Gobetti, dell’emigrazione antifascista in Francia. A questo proposito Arturo riassumeva così il suo mondo ideale e morale: “Con Gobetti, scrive, ho un rapporto degli anni giovanili: ho scritto non so quante volte, ho fatto un saggio dedicato a Gobetti e a Matteotti…ho girato persino un documentario per la TV svizzera, facendone un profilo a più voci … con Montale e con Prezzolini, con Bobbio e con Valiani, con Terracini e con Sapegno, con Spadolini e con Bauer. Insomma con chi l’aveva conosciuto di persona e con chi lo ha studiato.”
Ma devo passare al secondo punto. Inattesa negli studi del prof. Colombo fu l’attenzione alla figura di un Garibaldi, Sante. O forse non inattesa, perché dedicandomi una copia del suo “Riccardo Bauer, le radici ideologiche dell’antifascismo democratico” scrisse: “A Annita, perché ritrovi, forse, anche un po’ degli ideali in cui ha creduto il suo grande Papà”. Era il legame della Resistenza, una resistenza se posso dire così “libera”, libera dai vincoli di partito, dalle scelte ideologiche precostituite, che lo portava verso mio padre. E capisco meglio ancora il dono se leggo la dedica, originale questa, dell’autore “Alla memoria di mio Padre, che durante gli anni della dittatura mi ha educato a crescere nel segno dei principi di giustizia e libertà”. La lezione dei nostri padri ci univa, il mio mai conosciuto, il suo educatore, ma legati da valori che passano dai misteriosi fili di una coscienza umana che mai si perde se talvolta si disperde.
Devo dire subito che il suo interesse mi aiutò a superare le difficoltà legate al fatto che nessuno aveva evocato la cesura, o meglio la ferita, della divisione tra fascismo e antifascismo che aveva attraversato la nostra famiglia. Come tante famiglia italiane, certo, ma la mia aveva una certa visibilità. Fu facile costringere all’esilio nel 1925 il più coerentemente antifascista dei figli di Ricciotti, Sante appunto, privandolo del lavoro e in prospettiva della libertà. Fu una lunga e difficile ricostituzione di un itinerario rimasto semi sommerso, per la volontà dello stesso Sante di non accentuare la rottura dell’unità familiare che era come dire quella della tradizione garibaldina, sperando che in quel modo, in un futuro dove avrebbe vinto la democrazia e la libertà – su questo Sante non aveva dubbi – si sarebbe più facilmente potuto ricucire un tessuto risorgimentale del Paese.
Abbiamo camminato passo passo, assieme come se si fosse creato attorno alla figura di Sante Garibaldi un luogo comune tra i nostri altri impegni. Il primo passo in Italia fu compiuto con un convegno a Roma nel centenario della nascita di Sante, il 16 ottobre 1985, con Randolfo Pacciardi, Enrico Serra, la testimonianza di mons. Giovanni Fallani sui deportati cattolici a Dachau, tra i quali mons. Piguet che narrò del coraggio e della solidarietà del nipote di Garibaldi tra i disperati del campo. Fu tutto organizzato da Arturo Colombo che pubblicò poi per l’Archivio Trimestrale gli atti del convegno con il nome “Sante Garibaldi e la tradizione democratica garibaldina”.
Il progetto “famiglia Garibaldi” si allargò, direi inevitabilmente, fino a concretarsi un’altra prospettiva, quella dei “Garibaldi dopo Garibaldi”, alimentata mi sia consentito dirlo, dalle ricerche fatte attorno alla rinascita della casa-museo di Riofreddo, nel Lazio, casa di Ricciotti Garibaldi, il padre di Sante, rinascita da me appassionatamente voluta. Per questa impresa spericolata ebbi tutto l’appoggio di Arturo. Il libro che uscì nel 2005 con quel titolo, oggetto di numerose presentazioni, aiutò sicuramente a sostenere l’iniziativa che si trovò così suffragata dai prof. Colombo, Lotti, Ciuffoletti, e numerosi altri autori, tra i quali il prof. Monsagrati. Arturo diede al libro il suo saggio più compiuto “Sante Garibaldi in tre tempi”. Contemporaneamente nacque una mostra, che circolò in Italia e in America Latina, che narrava la storia della famiglia che credeva di poter essere una dinastia. La più bella presentazione di questa mostra rimane quella di Milano, in occasione del 2007, bicentenario della nascita di Garibaldi, che vide protagonisti Arturo Colombo ed un grande impresario della cultura, Decio Canzio, mio cugino. In quell’occasione i due intellettuali improvvisarono un dialogo di straordinario livello ed Arturo mi disse che bravo era stato Decio Canzio, ma che anche lui era di una famiglia di artisti, e mi regalò il suo saggio intitolato appunto “Una famiglia di artisti”, pubblicato nella Nuova Antologia del luglio-settembre 2009, con una dedica un poco scherzosa, forse: “I cromosomi, cosa vuoi…”.
Grande successo anche a Bordeaux quando Elena e Arturo vennero nel 2006 a ricordare Sante, ormai uscito dall’ombra, in occasione del 60° della morte, con una mostra voluta dal Comune della capitale dell’Aquitania, dove si ricordava l’opera dell’imprenditore e dell’uomo che aspettava in quella terra bella e ospitale, ma sempre terra d’esilio, il ritorno della libertà.
Non posso andare avanti ancora nella cronologia delle tante occasioni culturali vissute assieme, ma non posso non ricordare un ultimo articolo nella Nuova Antologia, del luglio-settembre 1988, intitolato “Il Garibaldi di Bauer”. Arturo vi pubblica uno degli ultimi scritti del quasi novantenne Bauer del 1982, dove analizza i temi del Garibaldi pacifista e internazionalista, tornato di attualità nel 2017, centocinquantesimo del Congresso di Ginevra, che Bruxelles, nella sede di Parlamento Europeo e la Svizzera a Ginevra hanno ricordato, l’Italia immemore. Il tema della guerra e della pace è uno di quelli che lo coinvolgono profondamente, e lo uniscono ancora a Sante Garibaldi che si rifiutò fino all’ultimo nel credere che l’Italia potesse entrare in guerra, sia per non avere i mezzi di affrontarla sia per l’antica civiltà, l’amore dell’arte e della vita del suo popolo, e il messaggio stesso del Risorgimento.
Infine un ultimo punto meno malinconico. “Mi è piaciuta – scrive Arturo rispondendo ad una mia cartolina da Parigi – quell’immagine della Parigi “rive gauche”, con la Senna dolce, indolente e accattivante; con quelle bancarelle di libri dove trovi tutto…con quel “profumo” che mischia arte e intelligenza, genio e sregolatezza, “intelligentsia” e “joie de vivre”.
Si, le affinità elettive, con la loro irrazionalità, con i lunghi silenzi ed i periodi più intensi, sempre a scriverci perché le mail e il telefono non avevano la sua preferenza con Elena, tormentata, si presume, dalle chiacchierate, e i figli loro, Augusto, Claudio, Chiara giovanissimi, sempre affettuosi con me. Arturo, che si diceva convinto “femminofilo” mi ha aperto la strada dell’incontro con le sue migliori amiche, in nome di una parità, anche nell’amicizia, che sentiva e praticava profondamente.
La parte migliore di me non ci sarebbe, Arturo, senza il tuo insegnamento e la tua amicizia. Ringrazio i tuoi cari di avermi consentito di continuare così le nostre passeggiate in questo mondo».