PERCHÉ IL XX SETTEMBRE NON È GARIBALDINO?

di Annita Garibaldi Jallet

La presa di Porta Pia, vista da Garibaldi, è esattamente quanto risulta dalle sue Memorie autobiografiche: non merita una parola. Nessuna lettera sua in quei giorni.

Lungo un ventennale percorso si incontra Garibaldi combattente nella Repubblica Romana, sull’Aspromonte e nell’Agro Romano, ma prima ancora un giovane marinaio soggiorna due mesi nella Roma dei Papi, nel 1825, ed ha già letto qualcosa della storia di Roma, a sufficienza per giudicarla schiava. E ancora e soprattutto, la conclusione della Spedizione dei Mille con l’incontro di Teano lo frustra e frusta l’Italia della sua capitale naturale dove avrebbe sicuramente pronunciato più volentieri il famoso “Saluto il Re d’Italia!” Vi era ancora qualcosa da dire dopo Mentana? Una lenta ma costante evoluzione economica e sociale trasformava gli Stati della Chiesa aprendoli ad un passaggio più indolore alla nuova nazionalità. Le popolazioni consideravano orami ineluttabile il congiungimento con il Regno d’Italia e non vedevano la necessità di una rivoluzione, o di una conquista con le armi di Roma. Come dimostra il fatto che non vi fu nessuna insurrezione all’arrivo dei primi garibaldini nel 1867. L’opinione pubblica era pur sempre cattolica, le campagne erano legate agli antichi statuti delle terre, la gente era povera, la borghesia nascente liberale. Garibaldi stesso se ne convince e tornato ancora una volta a Caprera da prigioniero cerca di placare i garibaldini che no si rassegnano a lasciare l’Agro Romano e la Toscana.

Da Caprera è un attento osservatore della situazione europea. Vede l’indebolirsi dell’Impero francese, seppur Napoleone III gli abbia impreso una svolta liberale, e forse proprio per questo, perché le dittature che danno spazio ai sindacati e alla libertà di stampa hanno vita breve. Vede soprattutto la formidabile pressione della Prussia e del Cancelliere Bismarck che a sua volta dal suo Re vuole fare un Imperatore regnante sugli Stati tedeschi. E seppur quel XX settembre debba essere stato un giorno luttuoso per tanti garibaldini e per il loro Generale, era ormai una fase conclusa della storia d’Italia. Non vi era da essere conviti che i rapporti tra Stato e Chiesa sarebbero stati armoniosi, ma questo era un altro discorso che s’intrecciava necessariamente con quello del proseguimento della lotta a favore della Repubblica. Bisognava combattere per un’Europa repubblicana da opporsi a quella degli Imperi. Un altro intreccio: quello della nascita dell’Impero tedesco che ha bisogno di una vittoria sulla Francia. Ci si ingegna a far nascere un conflitto con la provocazione della “dépêche d’Ems” che porta la Francia a dichiarare la guerra alla Prussia il 19 luglio 1870 e alla caduta di Napoleone III che lascia spazio a una Repubblica. Il 1° settembre, al termine di una campagna militare disastrosa, la Francia capitola. Ma Parigi si rivolta e scoppia l’insurrezione popolare. Si proclama la Repubblica e nasce il Governo della “Défense Nationale” con Léon Gambetta. Già il 20 settembre, o data vicina, Garibaldi scrive a Joseph Philippe Bordone: «Mon cher Bordone, si je puis sortir de ma prison, je serai avec vous». (Epistolario Vol.14 p 140)

Può fare qualcosa Garibaldi per l’Italia? Pensa agli equilibri futuri, e considera necessaria un’amicizia tra la Francia e l’Italia che possa contenere la potenza dell’Impero tedesco in Europa. Non si tratta di non riconoscere il diritto dei tedeschi alla loro nazionalità ma di fare in modo che nessuna in Europa ne sovrasti un’altra. L’Italia non si mobiliterà a difesa della Francia. Qualcosa può dire all’opinione pubblica un uomo solo, e per di più senza un Esercito? Garibaldi offre il 6 settembre i suoi servizi alla Francia “a quel Governo che ebbe sempre vergogna di proclamarsi repubblicano”. E, infatti, solo nel 1875 si adotteranno leggi costituzionali in questo senso, senza entusiasmo. Non viene intanto nessuna risposta, favorevole o meno, a Caprera.

Garibaldi esprime la sua delusione a Mauro Macchi, una lunga lettera datata settembre da Caprera (Epistolario Vol. XIV pp. 143-145) nella quale si dichiara senza indulgenza contro il Governo italiano che non consente un aiuto ufficiale alla Repubblica Francese. Garibaldi è convinto a partire per la Francia da quello strano personaggio che ha combattuto tra i volontari garibaldini nel 1859 e nel 1860, già ufficiale dell’Esercito francese, Philippe Joseph Bordone, che sbarca a Caprera il 4 ottobre. Crede veramente che lo si aspetti in Francia? O invece che voglia estraniarsi dall’Italia del XX settembre? Che pensi di potere esprimersi chiaramente a favore di una Repubblica che riveste per lui quei forti valori anticlericali, come li ha espressi ancora nel Congresso di Ginevra del 1867, ponendosi all’antitesi di quanto sta nascendo tra il Regno d’Italia e la Santa Romana Chiesa e culminerà con il non expedit? Questo è il più probabile, senza escludere le altre ipotesi.

Parte il 6 ottobre, e non trova nulla. Nessuna insurrezione dei marsigliesi, nessuna accoglienza da parte del Governo, nessun Esercito, se non un nucleo di volontari nato nei Vosgi. L’Esercito si ricostituisce sul territorio, nella Loira, nell’Est, nell’Alsazia, nella Lorena. Garibaldi dal 7 ottobre forma il suo Esercito a Dôle. Gli ufficiali sono i suoi due figli Menotti e Ricciotti, il genero Canzio, Bordone, il polacco Bossak Hauke. La Borgogna è affidata dal Governo al Generale Cambriels, che non ha autorità su Garibaldi e viceversa. A far fronte a tanta improvvisazione da parte francese vi è il Generale prussiano Von Moltke. La guerra comincia. E’ un’epopea straordinaria per Garibaldi e i suoi uomini, militarmente gloriosa, politicamente dolorosa. Chi torna in Italia è costretto a restituire le armi. Ma la maggior parte erano francesi. Tarderà un riconoscimento, fino al Governo Boulanger alla fine del secolo.

Eletto al Parlamento nel 1871, Garibaldi non riuscirà a esprimere nemmeno il desiderio che sarebbe stato il suo di votare per la Repubblica, se avesse potuto accettare l’elezione. Il rifiuto di dargli la parola nell’aula di Bordeaux, con le dimissioni da deputato di Victor Hugo, faranno eco alla sua rivolta contro la resa del Regno d’Italia alla realpolitik quando ci s’inchinerà alla Conciliazione?