Piero GOBETTI, L’autobiografia della nazione Alessio Pizziconi

Piero GOBETTI, L’autobiografia della nazione, a cura di C. Panizza, Aras Edizioni, Fano, 2016, pp. 200, 12

La celebre locuzione con la quale Piero Gobetti, esponente di primo piano dell’antifascismo, definì il movimento di Mussolini, comparve ne L’elogio della ghigliottina, uno dei suoi articoli più noti, pubblicato sul numero di «Rivoluzione liberale» del 23 novembre 1922, in piena lotta politica. Tuttavia il concetto si era già da tempo delineato nei suoi scritti: l’«autobiografia della nazione» aveva alle spalle un’analisi approfondita e non convenzionale che abbracciava assieme le qualità del liberalismo italiano e i caratteri della storia recente del paese, dalla genesi del Risorgimento fino alla Grande Guerra. Il punto di partenza era rappresentato da un bilancio critico del Risorgimento inteso innanzitutto come contestazione delle modalità con cui il processo unitario si era realizzato.

Non essendo nata l’Unità, secondo lui, dall’«esercizio della libertà», dall’autonoma partecipazione delle masse, il Risorgimento era fallito come esperimento di pedagogia politica nelle sue premesse liberali e autonomistiche. Dal suo punto di vista, il marginale apporto popolare rappresentava una tradizione politica diseducatrice e frutto di un secolare processo di de-responsabilizzazione verso la politica da parte del popolo italiano. Ne era derivato uno Stato unitario, secondo le parole di Gobetti, in cui «il popolo non crede perché non l’ha creato con il suo sangue» mentre l’assenza della borghesia moderna aveva favorito la sclerotizzazione burocratica delle istituzioni liberali (già denunciata da Einaudi e Salvemini). La frattura fra governanti e governati era infatti la frattura più grave, per il giovane liberale torinese, riscontrabile nella società italiana. La prassi trasformistica del compromesso aveva fatto il resto. Gobetti infatti vedeva nella valorizzazione del conflitto il volano dello sviluppo sociale, frutto di «responsabilità ed educazione politica». Era dai segmenti più avanzati della classe operaia, quella al centro del sistema industriale di allora, che Gobetti si augurava potesse nascere una nuova classe dirigente del paese. E anche dopo la marcia su Roma continuò a considerarla il punto maggiore di resistenza della società italiana, da cui si sarebbero prodotte le energie in grado di far recuperare la libertà al Paese.

A differenza di molti altri intellettuali e politici dell’epoca, Gobetti aveva colto da subito la portata e soprattutto il fine del fascismo. Non lo preoccupava lo squadrismo, quanto la normalizzazione del fascismo. Nella tranquillità con cui la maggioranza degli italiani avevano assistito all’ascesa del governo di Mussolini dopo la marcia su Roma, stava secondo Gobetti la «vera rivelazione di una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinunzia per pigrizia alla lotta politica». Era l’altra faccia della medaglia, dell’indifferenza verso la politica di una nazione spiritualmente priva di proletari o di borghesi, ma composta solo di «classi medie». In tutto questo si inserì la capacità concreta del fascismo di coagulare intorno a se un consenso ampio e trasversale, anche al di là di quello estorto con il ricorso alla violenza. La tesi dell’autobiografia della nazione ebbe un eco estremamente vasta, poiché le potenzialità esplicative di questa lettura stavano nel considerare il fascismo un fenomeno in continuità col passato, che aveva trovato punti di forza nel particolare contesto di arretratezza del paese.