Il monumento a Garibaldi di Anghiari (Arezzo)

GIUSEPPE GARIBALDI E IL MITO DELLA CAPITALE D’ITALIA

di Silvio Pozzani

Il culto garibaldino di Roma deve probabilmente la sua origine alla passione dei primi tempi nizzardi e dei pochi elementari studi dell’Eroe, fra i quali la storia antica –quella romana in particolare – occupava – a suo dire – un posto d’onore (1).

Questa sua passione infantile ricevette ulteriore alimento dalla visita della Città Eterna che egli, adolescente (era nato nel1807), effettuò nel 1825, in compagnia del padre Domenico: non la Città Pontificia, nell’Anno Giubilare, lo impressionò, ma le vestigia della passata grandezza, da lui poi ritenute pegno di quella di una futura Italia risorta: “ La Roma ch’io scorgeva nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire, Roma di cui giammai ho disperato naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste americane! La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! Idea dominatrice di quanto potevano ispirare il presente e il passato, siccome dell’intiera mia vita…Infine Roma per me è l’Italia…Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate.”(2).

Garibaldi, stando a quanto egli stesso dichiara, nelle “Memorie” così scriveva dell’Urbe nel 1849 (3), quando era a Roma, come Comandante militare, ma anche come rappresentante eletto all’Assemblea Costituente, da cui, il 9 febbraio 1849, doveva scaturire la Repubblica Romana; in quell’occasione, il suo pensiero corse all’antica: “Ora assistevo alla rinascita del gigante delle Repubbliche, la romana! Sul teatro delle maggiori grandezze del mondo! Nell’Urbe!… Quivi, liberamente, nell’aula stessa dove si adunavano i vecchi tribuni della Roma dei Grandi, eravamo adunati noi, non indegni forse degli antichi padri nostri, se presieduti dal genio ch’essi ebbero la fortuna di conoscere ed acclamare sommo! E la fatidica voce di Repubblica risonava nell’augusto recinto, come nel di’ che ne furono cacciati i re per sempre!”(4).

Oltre ai ricordi classici, sull’animo del Nizzardo agiva il culto di Roma alimentato da Giuseppe Mazzini, nelle cui idealità aveva avuto forma e sviluppo l’educazione politica di Garibaldi, dall’affiliazione alla Giovine Italia nel 1833, all’esilio sudamericano, da cui l’Eroe aveva fatto precipitosamente ritorno al primo annunzio delle rivoluzioni del 1848 (5).

Nel pensiero di Mazzini, Roma aveva assunto l’altezza di universale ispiratrice di una nuova era, questa volta nel segno della democrazia e del progresso: dopo la Roma dei Cesari e quella dei Papi, la Roma del Popolo, che l’Umanità intera avrebbe riconosciuto come maestra (6).

Così il Grande Italiano rievocava il suo ingresso nell’Urbe nel 1849: “Roma era il sogno de’ miei giovani anni, l’idea-madre nel concetto della mente, la religione dell’anima, e v’entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era – ed è tuttavia malgrado le vergogne dell’oggi – il Tempio dell’Umanità; da Roma uscirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all’Europa….E non di meno trasalii, varcando la Porta del Popolo, d’una scossa quasi elettrica, d’un getto di nuova vita. Io non vedrò più Roma, ma la ricorderò, morendo, tra un pensiero a Dio e uno alla persona più cara e parmi che le mie ossa ovunque il caso farà che giacciano, trasaliranno, come io allora, il giorno in cui una bandiera di repubblica s’innalzerà, pegno dell’unità della patria italiana, sul Campidoglio e sul Vaticano”.(7).

Altrove il tono con cui l’Esule magnificava Roma raggiungeva vertici biblici; come nel 1859, in uno suo scritto famoso, rivolto ai giovani d’Italia: “Venite meco. Seguitemi dove comincia la vasta campagna che fu, or sono tredici secoli il convegno delle razze umane, perch’io vi ricordi dove batte il core d’Italia.

Là scesero Goti, Ostrogoti, Eruli, Longobardi, ed altri infiniti, barbari o quasi, a ricevere inconscii la consacrazione della civiltà prima di riporsi in viaggio per le diverse contrade d’Europa; e la polve che il viandante scote da’ suoi calzari è polve di popoli… Piegate il ginocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là posa eternamente ROMA. (8).

Questa idea mazziniana di Roma aveva avuto spazio per affermarsi con la Giovine Italia (1831), non solo nell’ambiente degli affiliati e dei simpatizzanti, ma anche in quello degli esuli; anche in Sudamerica, dove Garibaldi era riparato dopo il fallito tentativo di far sollevare Genova, in concomitanza con la progettata invasione della Savoia (1834), condannato per questo a morte in contumacia. (9).

Il 1848 lo sorprese – abbiamo detto – a Montevideo, a capo di una Legione Italiana che si era già distinta per valore, in più occasioni, nella difesa della capitale dell’Uruguay dall’assedio delle forze argentine (10).

Le “primavera dei popoli” sollecitò il suo ritorno in Italia ed egli, partito in aprile su un brigantino, ribattezzato Speranza, accompagnato da 63 Legionari, potè sbarcare a Nizza, nel mese di giugno del 1848 (11).

Da dove mosse, con i suoi, ad offrire, personalmente, a Riverbella (Mantova), il suo concorso al Re Carlo Alberto, sceso in campo contro gli Austriaci, ma ancora diffidente di chi aveva fatto condannare a morte nel 1834.

Sentendosi respinto, Garibaldi mise a disposizione se stesso e i suoi fidi del Governo Provvisorio di Lombardia e, da Milano, con il grado di Generale, al comando di una colonna, si portò a Bergamo, a protezione di Brescia; la sconfitta piemontese a Custoza (23-25 luglio 1848), seguita dal ritorno austriaco a Milano (6agosto) e dall’armistizio di Salasco (4 agosto), con cui Carlo Alberto si ritirava dalla guerra, lo costrinsero a sconfinare temporaneamente in territorio sardo; da qui però uscì alla testa dei suoi volontari, tenendo il campo, nella zona del Lago Maggiore, impegnando ingenti forze austriache e riuscendo vincitore a Luino (15 agosto) e a Morazzone, (Varese)(26 agosto), dove riuscì a disimpegnarsi e a ritirarsi infine oltre il confine elvetico (12).

Tornato a Nizza, nell’autunno 1848 chiamò di nuovo a raccolta i reduci di Montevideo, progettando uno sbarco in Sicilia, che ancora resisteva al Borbone spergiuro e prevalente nel resto del Regno; infine, da Genova, egli e i suoi uomini presero terra a Livorno (25 ottobre); di li a Firenze (3 novembre), dove il Generale arringò la folla, chiamando alle armi gli italiani contro i tiranni stranieri e domestici e passando quindi in Romagna, inizialmente ostacolato dal Governo Costituzionale dello Stato Romano, ma poi libero di muovere, dopo la fuga del Pontefice dell’Urbe, con le sue forze, ormai consistenti, al servizio del nuovo potere democratico (già dal 20 novembre).

Quella che era ormai la Legione Italiana (1264 uomini alla fine) (13) arrivava a Macerata, il 10 dicembre, dove Garibaldi era eletto deputato, il 21 gennaio 1849, alle elezioni dell’Assemblea Costituente Romana , le uniche a suffragio universale di tutto il Risorgimento, convocata per dare una nuova forma costituzionale all’ex Stato Pontificio.

Ne risultò, il 9 febbraio 1849, la Repubblica Romana, unitamente a un Decreto Fondamentale, in quattro articoli che proclamavano la decadenza del governo temporale del Papa, le garanzie (“guarentigie”) dell’indipendenza del potere spirituale pontificale, la forma di “democrazia pura” del governo dello Stato, le relazioni “con il resto d’Italia” dettate dalla “nazionalità comune” (14).

Fra i deputati che, già il 5 febbraio, si erano riuniti in Campidoglio, Garibaldi era stato fra i più fervidi sostenitori della scelta repubblicana: “ i discendenti degli antichi Romani, i Romani di oggi, forse non sono capaci di essere repubblicani? Dopo che in questo recinto ha risuonato presso qualcuno acre la parola Repubblica, io ripeto: Viva la Repubblica!”(15); questo nel discorso da lui pronunciato.

Ma la neonata Repubblica non aveva molte speranze di durare: Austria, Francia, Spagna, Regno delle Due Sicilie avevano positivamente accolto l’appello di restaurazione del suo trono temporale, diramato da Gaeta da Pio IX, ospite del Re Borbone; tanto che l’Assemblea romana aveva, il 29 marzo 1849, decretato di incaricare del governo straordinario dello Stato un Triumvirato nelle persone di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, Carlo Armellini (16).

Garibaldi si compiaceva con il “Fratello Mazzini” scrivendogli, il 3 aprile da Rieti: “ Sorreggavi la Provvidenza nella brillante ma ardua carriera, e possiate fare tutto ciò che sente l’anima vostra a beneficio del nostro paese” (17); ma la situazione era aggravata dalla ulteriore e definitiva sconfitta di Carlo Alberto a Novara (23 marzo 1849) e dallo sbarco di un Corpo di truppe francesi, al comando del Generale Oudinot, a Civitavecchia (25 aprile 1849) (18).

Il 26 aprile, l’Assemblea decise di resistere al proditorio attacco francese; il Triumvirato ne dava così notizia al popolo : “ Noi resisteremo, perché l’indipendenza non può perdersi neppur per un giorno da un popolo senza suicidio – perché abbiamo cento volte giurato difenderci da ogni offesa interna ed esterna…perché abbiamo in custodia l’onore italiano; – perché siamo in Roma, nella città delle grandi memorie e delle grandi speranze.”(19).

Incombendo la minaccia francese, anche la Legione Italiana mosse verso la capitale: da Rieti, dove si era spostata, ad Anagni, a Roma, dove Garibaldi entrò, alla testa dei suoi, Generale di Brigata della Repubblica, entusiasticamente accolto, il 28 aprile 1849 (20).

Lo scontro con i Francesi si verificò il 30 aprile, nei pressi del Vaticano, sotto le mura dell’Urbe: gli assalitori, convinti che non avrebbero incontrato alcuna opposizione, si scontrarono con un’ accanita resistenza e furono alla fine travolti dall’impeto dei garibaldini lasciando indietro morti, feriti e prigionieri (21).

Il Governo francese accettò una sospensione d’armi ed entrò in trattative diplomatiche con il Triumvirato, consentendo così all’Esercito romano di uscire, la notte del 5 maggio da Roma, per affrontare le truppe borboniche che si andavano avvicinando e che vennero battute da Garibaldi, il 9 maggio, a Palestrina, il 19, a Velletri; solo un ordine del Triumvirato, preoccupato dalla minaccia francese, trattenne il Nizzardo, all’inseguimento dei borbonici, dal penetrare in profondità nel territorio del Regno meridionale, chiamando all’insurrezione le popolazioni, come aveva iniziato a fare (22).

Audaci e ambiziosi i disegni strategici di Garibaldi, non solo per l’Italia meridionale, ma anche per i confini settentrionali della Repubblica, che egli avrebbe voluto investire militarmente, contrastando gli Austriaci che, superate le resistenze di Livorno e di Bologna, dilagavano, mettendo Ancona sotto assedio (23); ciò avrebbe però comportato distrarre forze importanti dalla Capitale, con la minaccia francese incombente e l’importanza che lo Stato repubblicano le attribuiva come simbolo primario; di qui i contrasti che ne derivarono, con il Triumvirato e con Mazzini stesso (24).

Ma, diplomaticamente isolata, la Repubblica Romana aveva i giorni contati.

L’Oudinot, infatti, ricevuti consistenti rinforzi, sconfessò gli accordi precedentemente conclusi, denunciò la tregua e fece attaccare proditoriamente, la notte fra il 2 e 3 giugno ( con un giorno di anticipo), le posizioni dominanti di Villa Panfili, Villa Corsini e Villa Valentini, sorprendendone e sopraffacendone i difensori.

Vanamente, dalle prime luci del mattino al calar della notte del 3 giugno, Garibaldi lanciò all’assalto i reparti a sua disposizione per riconquistare la posizione chiave di Villa Corsini, occupandola e prendendola più volte, con gravissime perdite.

Alla fine, però, la Villa rimase ai Francesi e questo segnò per la Repubblica Romana l’inizio della fine (25).

Dal 4 al 29 giugno, infatti, lentamente, ma inesorabilmente, i Francesi procedettero al consolidamento delle posizioni dominanti espugnate, accanitamente, ma inutilmente contese dagli uomini di Garibaldi (26).

Alla fine, il nemico si era saldamente attestato e dominava l’Urbe.

Allora l’Assemblea Costituente romana, scartando la proposta di Mazzini ( e di Garibaldi) di uscire dalla città con il Governo e l’Esercito al completo, per portare altrove la guerra ai nemici d’Italia, fu posta di fronte all’alternativa: resistere a oltranza, dietro le barricate, o arrendersi (27).

Si scelse la resa, il 1° di luglio 1849 e i Francesi entrarono in città il 3 luglio; ma non poterono impedire che in Campidoglio venisse solennemente proclamata dall’Assemblea, la Costituzione della Repubblica (28).

Mazzini, supremo reggitore delle sorti della Repubblica, ritornò qual era stato poco prima, esule e proscritto (29); così, tanti altri, come lui.

Garibaldi, invece, non volle arrendersi, convinto di poter continuare a battersi, per l’Urbe come aveva già detto, intervenendo all’Assemblea il 30 giugno 1849: “ Ovunque noi saremo, sarà Roma”.(30).

Così il 2 luglio, sull’ora di mezzogiorno, diede appuntamento, a quanti intendevano seguirlo, in Piazza San Pietro; ai combattenti e ai cittadini là convenuti, così si rivolse: “La fortuna che oggi ci tradì, ci arriderà domani. Io esco da Roma. Chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me. Io non offro né paga, né quartieri, né provvigioni; io offro fame, sete, marcie forzate, battaglie e morte. Chi ha il nome d’Italia non sulle labbra soltanto, ma nel cuore, mi segua.” (31).

Circa 4.500 uomini uscirono con lui, da Piazza San Giovanni, quella sera stessa, condividendo la speranza di percorrere contrade solidali nel combattere gli stranieri e i sovrani restaurati.

La caduta delle illusioni garibaldine coincise con una vera e propria ritirata attraverso il Lazio, l’Umbria, la Romagna, le Marche, incalzata da quattro eserciti nemici, fino a San Marino, dove il Generale sciolse quanto rimaneva della sua Legione (32).

Le vicende successive sembrano incredibili: dal Monte Titano a Cesenatico, con un pugno di fedelissimi; naufragio nelle Valli di Comacchio, nel tentativo di raggiungere Venezia, che ancora resisteva all’assedio e al blocco austriaco; morte della sua inseparabile Anita, nei pressi di Ravenna e successivo “ salvamento” dell’Eroe da parte della “trafila” di Romagna e dei patrioti di Toscana, fino alle coste della Maremma; di qui ai primi di settembre 1849, per mare, in Liguria, nei confini del Regno Sardo, salvo, ma alla vigilia di un secondo esilio dall’Italia, tappa non ultima della sua leggendaria esistenza (33).

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  1. S.POZZANI, La passione di Garibaldi per la storia antica, in “Camicia Rossa” Periodico dell’ANVRG, Firenze, a. XXXVI – n. 3, ag. – dic. 2016, pp. 10-12.

  2. G.GARIBALDI, Memorie autobiografiche, a c. di G. SPADOLINI, Firenze, Giunti reprint [ ma Firenze,1920], 1982, p. 11.

  3. Ibidem, nota 1.

  4. Op. cit. p. 223.

  5. G. TRAMAROLLO, Garibaldi e la “Giovine Italia”, in AA.VV., Giuseppe Garibaldi 1882-1982, inserto al n. 2/3/1982 de “ Il Pensiero Mazziniano”, pp. 3-6.

  6. G. MAZZINI, Dal Discorso all’Assemblea Costituente Romana del 6 marzo 1849, in Scritti Editi e Inediti – Edizione Nazionale, (d’ora in poi SEN), Imola, Galeati, 1925, vol. XLI, Politica vol. XV, pp. 7-8.

  7. G. MAZZINI, Note autobiografiche, a c. di M. MENGHINI, Firenze, Le Monnier, 1943, p. 305.

  8. G. MAZZINI, Ai giovani d’Italia (1859), SEN, Imola, Galeati, 1933, vol. LXIV, Pol. Vol. XXII, p. 180.

  9. M. MILANI, Giuseppe Garibaldi. Biografia critica, Milano, Mursia, 1982, pp. 15-24.

  10. Per uno sguardo d’insieme, cfr. I.BORIS, Gli anni di Garibaldi in Sud America 1836-1848, Milano, Longanesi, 1970.

  11. G. SACERDOTE, La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Rizzoli, 1933, p. 368.

  12. Cfr., più recentemente, sull’argomento, S. POZZANI, Garibaldi nel 1848, in “Camicia Rossa”, cit., a. XVII,n.1, feb.- apr. 1998, pp. 6-7.

  13. G. SACERDOTE, op. cit., p. 418.

  14. G. LETI, La rivoluzione e la Repubblica Romana (1848-1849), Milano, Vallardi, 1913,pp.150-152.

  15. G. SACERDOTE, op. cit., p. 408.

  16. G. LETI, op. cit., pp. 214-216.

  17. G. SACERDOTE, op. cit.,p.413.