La Chiesa anglicana di San Paolo entro le mura a Roma

IL GARIBALDI S. GIACOMO E LA CURIOSA STORIA DEI MOSAICI DELLA CHIESA ANGLICANA DI ROMA

  • L’abside della Chiesa anglicana di via Nazionale a Roma con la parte in cui sono raffigurate le personalità del tempo tra cui Giuseppe Garibaldi
  • Nella seconda figura da sinistra, San Giacomo, si riconosce il volto di Garibaldi
di Angelo Gallo Carrabba

C’è un luogo al mondo dove si può vedere Garibaldi a cavallo accanto ad Ulisse Grant e Abramo Lincoln, e quel luogo è a Roma, in via Nazionale, nei mosaici che decorano l’abside della chiesa anglicana di San Paolo entro le mura, a due passi dal Teatro dell’Opera.

Edificio di fine XIX secolo in stile neoromanico e neogotico, St. Paul’s Within The Walls (questo il nome prescelto dai fondatori, anche per sottolineare l’entrata simbolica del culto protestante all’interno delle mura della città) venne costruita a Roma fra il 1873 ed il 1880 su progetto dell’architetto inglese George Edmund Street[1] e committenza della comunità episcopaliana americana di Roma, a capo della quale era allora il reverendo Robert Jenkins Nevin[2], rettore di forte ascendente e poliedrica personalità.

Uomo di chiesa ma anche soldato con un passato nei volontari della Pennsylvania durante la guerra di secessione americana, fine teologo e appassionato collezionista d’arte, quest’ultimo guidò la comunità episcopaliana di Roma per 37 anni, distinguendosi proprio per la costruzione, nella città eterna dei Papi, dell’elegante chiesa goticheggiante dell’odierna via Nazionale; cioè quello che è stato il primo edificio di culto protestante eretto nella capitale, risultato anche delle sue abilità politiche e diplomatiche che riuscirono a sfruttare al meglio il momento favorevole seguito alla breccia di Porta Pia ed al ridimensionamento dell’ingerenza pontificia nel governo civile della città.

Lo stesso Nevin raccontò la nascita della chiesa in un libro[3] del 1878, che – oltre a riportare il testo dei sermoni pronunciati in occasione della cerimonia di consacrazione del 25 marzo 1876, nella ricorrenza dell’Annunciazione – conteneva un resoconto minuzioso delle donazioni fino ad allora raccolte, delle opere già realizzate e di quelle da realizzare. L’ambizioso progetto di un tempio protestante nel cuore della Roma papalina richiedeva talento visionario e spirito guerriero, e al reverendo Nevin non facevano difetto né l’uno né l’altro.

Per le decorazioni musive dell’abside fu incaricato un noto artista britannico del tempo, Edward Coley Burne-Jones[4], esponente di spicco della corrente pittorica dei Preraffaelliti, il quale corrispose all’incarico e tuttavia non venne mai a Roma per seguirne la messa in opera. Burne-Jones, infatti, si limitò a realizzare i cartoni preparatori che, assieme alle indicazioni dei colori da usare, furono poi inviati a Venezia per la realizzazione con tessere della Venice & Murano Glass and Mosaic Company[5]; per sovrintendere al montaggio ed alla posa dei mosaici, Burne-Jones mandò a Roma il suo assistente Thomas Matthews Rooke[6].

I mosaici dell’abside[7] erano in tutto quattro. Secondo il gusto del tempo e per volontà del reverendo Nevin, fra i soggetti in esso raffigurati si potevano riconoscere le fattezze di eminenti personalità contemporanee e generosi benefattori. I primi tre mosaici furono completati fra il 1885 ed il 1894, mentre il quarto, in basso a destra, fu completato da Rooke nel 1907 partendo dai bozzetti di Burne-Jones, frattanto morto pochi anni prima, così come morto, da pochi mesi, era anche lo stesso reverendo Nevin.

In quest’ultimo affresco, Garibaldi compare nel gruppo dei cosiddetti “guerrieri della Chiesa”, prestando le fattezze a San Giacomo, patrono di Spagna. Alla sua destra, San Giorgio, patrono d’Inghilterra, ha le sembianze del generale Hancock, eroe dell’Unione nella battaglia di Gettysburg, mentre alla sua sinistra figurano due presidenti degli Stati d’Uniti, ovvero il generale Ulysses Grant (nelle vesti di San Patrizio patrono d’Irlanda) e Abraham Lincoln (in quelle di Sant’Andrea patrono di Scozia). Lo stesso Thomas Rooke presta i suoi lineamenti a San Longino patrono dei militari, l’allora ambasciatore americano a Roma (Henry White) è San Dionigi patrono di Parigi, le ultime due figure riconoscibili sono quelle del predicatore francese Charles Loyson (a quel tempo meglio noto come Père Hyacinthe) e del filantropo americano Theodore Roosevelt senior, padre del futuro presidente Theodore Roosevelt junior.

Quel singolare manipolo di generali, combattenti e condottieri – in cui forse non è arbitrario riconoscere qualcosa della stessa parabola del reverendo Nevin, dai campi di battaglia alle navate della chiesa – non esaurisce il curioso pantheon laico di San Paolo entro le mura. Fra le figure degli altri mosaici, sono stati riconosciuti molti altri personaggi di fine Ottocento: esponenti della chiesa anglicana (come l’arcivescovo di Canterbury del tempo, Archibald Campbell Tait), munifici donatori (il banchiere Junius Morgan, padre del più famoso J.P., o Mary Dahlgren, moglie di William Waldorf Astor), politici (fra cui l’ex ambasciatore americano a Roma, George Perkins Marsh); presenti anche lo stesso Burne-Jones, in veste di San Giovanni Cristostomo, e sua moglie Georgiana, che prestò il volto a Santa Barbara, oltre che lo stesso reverendo Nevin nelle sembianze di San Francesco.

Resta, a questo punto, da chiedersi come mai, fra tanti personaggi così profondamente legati alla società ed alla cultura protestante anglosassone, sia finito anche il volto di Giuseppe Garibaldi: certamente un omaggio all’ospitale Italia, ma sarà stato solo quello il motivo?

Diverse sono le interpretazioni proposte. Una chiave di lettura politica vede nei mosaici di St. Paul’s Within The Walls un’esaltazione dell’epopea democratica ottocentesca; un’altra, in chiave più teologica, vi legge un messaggio antipapista di forte contrarietà alle posizioni della chiesa di Roma (di cui sarebbe segno la presenza, fra le figure dei mosaici, non solo del massone Garibaldi, ma anche di due dei più acerrimi oppositori del dogma dell’infallibilità papale proclamato nel 1870 dal Concilio Vaticano I, cioè Charles Loyson e Johann Joseph von Döllinger).

Frugando fra le storie dei protagonisti, si scopre, tuttavia, che sia Burne-Jones, sia lo stesso reverendo Nevin, in momenti diversi della loro vita avevano incontrato Garibaldi, e probabilmente ne erano restati anche molto colpiti.

Le memorie di Burne-Jones conservano traccia di un estemporaneo incontro londinese fra l’artista e l’eroe dei due mondi, avvenuto il 15 aprile 1864. Allora, Burne-Jones aveva la sua bottega al numero 62 di Great Russell Street, fra Bloomsbury e Holborn, esattamente di fronte allo scalone d’ingresso del British Museum, la cui biblioteca era diretta a quel tempo dall’esule brescellese Antonio Panizzi.

Panizzi, che di lì a qualche anno fu fatto “sir” dalla Regina Vittoria e senatore dal Regno d’Italia, era molto più che un insigne bibliotecario, essendo stato una sorta di ambasciatore a Londra del Risorgimento italiano: amico personale dei primi ministri Palmerston e Gladstone, presso i quali aveva perorato la causa dell’Italia unita, intimo di Luigi Settembrini (del quale, quando questi era stato condannato all’ergastolo, aveva adottato il figlio Raffaele), Panizzi era in rapporti epistolari con le più influenti personalità della politica del tempo, da Cavour a D’Azeglio passando per Minghetti, Bertani, Ricasoli e Farini. Le sue simpatie garibaldine erano note, sebbene i detrattori, e fra questi Mazzini, gli imputassero una certa superficialità e volubilità d’opinioni.

Quando Garibaldi andò a Londra per la sua quarta visita, acclamato come un trionfatore, si recò anche al British Museum ospite di Panizzi. Burne-Jones assistette alla scena dalla sua bottega e ne rimase molto impressionato, descrivendola così nelle sue memorie[8]: “La breve visita di Garibaldi in Inghilterra ad aprile è fissata nella mia memoria dalla sua venuta un giorno per vedere il suo amico Panizzi al British Museum, quando dalle nostre finestre lo abbiamo visto arrivare, seguito e circondato da una grande folla plaudente che risalì oltre i cancelli fino al palazzo. Lì si fermò prima di entrare e, mentre si voltava sul gradino superiore rimanendo per un momento a capo scoperto, la sua figura in camicia rossa spiccava chiara sopra la massa scura del popolo”.

Più che una descrizione, quasi un’istantanea a colori, della quale l’occhio esperto del pittore – abituato a incorniciare l’immagine – sembrava cogliere immediatamente gli aspetti salienti: la folla che invade il prato antistante il museo, l’uomo in camicia rossa che si gira in cima allo scalone, la sua figura che torreggia luminosa su una moltitudine che sembra già una macchia scura sulla tela. E quell’aggettivo sostantivato, “red-shirted” (“camicia rossa”), che ritorna anche nel resoconto dell’incontro di Garibaldi col reverendo Nevin.

Di quest’altro episodio, avvenuto in una data imprecisata del 1880, abbiamo testimonianza da un quaderno di viaggio[9] dato alle stampe dal fratello del reverendo, il capitano William Wilberforce Nevin, anche lui orgoglioso del suo passato da militare unionista al punto da rivendicarlo con fierezza agli attendenti di Garibaldi nel momento in cui lo introducevano al cospetto dell’illustre ospite.

“The red-shirted leader at work on a sick-bed”, esordisce il brano[10]: il comandante in camicia rossa al lavoro sul letto di malattia. Scrive W. W. Nevin: “Ho avuto la fortuna di visitare Garibaldi l’altro giorno, in compagnia del titolare di uno dei principali quotidiani di New York e di mio fratello, il reverendo dottor Nevin di Roma, la cui influenza qui con un distinto ufficiale, il capo di stato maggiore dell’esercito italiano[11], ci aveva procurato una responsabile introduzione e un’udienza al vecchio generale rivoluzionario, costretto a letto e troppo malato per ricevere visitatori se non per una buona causa”.

È interessante notare come il reverendo Nevin non si trovasse certo lì per caso, ma a quanto pare fosse stato proprio lui, attraverso i suoi buoni uffici con gli alti gradi dell’esercito, a procurarsi l’udienza.

Il racconto prosegue con una vivida e divertente descrizione dei luoghi dove avviene l’incontro e delle persone che vi sostano in anticamera, in una sarabanda di varia umanità che affastella veterani di guerra, esponenti irredentisti, giornalisti del Times, avventuriere e povere donne. La pagina si sofferma poi sulla vivacità dell’illustre malato: “Il vecchio generale parlò con un po’ di sforzo, ma fino all’ultimo con entusiasmo. Ricordava l’America con gentilezza amichevole e sembrava compiaciuto quando gli dissi che il suo nome era familiare tra la nostra gente. Gli occhi gli si accesero mentre parlava dell’Italia unita, e parve ringraziare lo straniero che aveva avuto l’interesse amichevole di chiederglielo e di esprimergli simpatia”.

Fu quello il momento in cui il reverendo Nevin decise di far inserire Garibaldi nel suo paradiso terrestre di generali, condottieri e filantropi? O decisivo fu lo sguardo alla folla, lanciato dall’uomo incamiciato di rosso dalla cima dello scalone di Great Russell Street e catturato dallo sguardo curioso del pittore? Nel dubbio, non resta che apprezzare, una volta di più, il fascino suggestivo dei curiosi incroci della storia, che ci hanno lasciato in eredità un’opera unica e misteriosa, intrisa di significati, omaggi ed evocazioni.

[1] Street (Woodford 1824 – Londra 1881) dal punto di vista stilistico fu uno dei protagonisti del cosiddetto “revival gotico vittoriano”. Dopo la chiesa di via Nazionale, a Roma negli anni successivi progettò anche la chiesa inglese di Ognissanti (All Saints’ Church) in Via del Babuino, la cui edificazione fra il 1882 e il 1887 fu poi seguita dal figlio Arthur Edmund.

[2] Nato ad Allegheny, in Pennsylvania, nel 1839, R.J. era figlio del teologo protestante John Williamson Nevin e fratello maggiore della nota scultrice Blanche Nevin. Studiò teologia a Filadelfia e poi a New York; durante la guerra civile, dopo aver capitanato una batteria dell’artiglieria, fu promosso al grado di maggiore, comandando la brigata centrale schierata a difesa di Washington; successivamente ordinato sacerdote nel 1867, dal 1869 fu rettore della Grace Church di Roma, poi divenuta St. Paul’s Within The Walls. Morto a Città del Messico all’età di 67 anni, probabilmente per un attacco di malaria, è sepolto nel cimitero militare nazionale di Arlington, in Virginia. Alla sua morte, nel 1907, gli eredi misero all’asta la sua preziosa collezione di circa 175 dipinti, fra cui molte opere di scuola umbra e marchigiana del XIV-XV secolo; anni dopo, il catalogo della memorabile vendita fu oggetto di approfonditi studi da parte del grande critico d’arte Federico Zeri.

[3] Cfr. R.J. Nevin, St. Paul’s Within The Walls: An Account Of The American Chapel in Rome, D. Appleton and Company, New York 1878, pp. 280.

[4] L’arte di Burne-Jones (Birmingham 1833 – Londra 1898), seguace in gioventù del capostipite della corrente Dante Gabriel Rossetti e poi socio del decoratore William Morris, risentiva delle influenze dell’arte musiva bizantina e dei grandi maestri del Rinascimento italiano.

[5] Compagnia di vetro artistico muranese fondata qualche anno prima da Antonio Salviati assieme a due soci inglesi (l’archeologo Austen Henry Layard e l’antiquario William Drake) e presente con una propria sede anche a Londra.

[6] Rooke (Londra 1842 – 1942), prima di essere assistente di Burne-Jones e rinomato acquerellista, fu a lungo disegnatore e collaboratore della casa di tessuti Morris & Co., del critico d’arte John Ruskin e del curatore Sidney Cockerell.

[7] Oggetto, nel 2015-2016, di un intervento di restauro curato da Patrizia Cevoli.

[8] I Memorials of Edward Burne-Jones furono pubblicati postumi a partire dal 1904 dalla vedova, lady Georgiana MacDonald, per i tipi di MacMillan & Company.

[9] Cfr. W.W. Nevin, Vignettes of Travel: Some Comparative Sketches in England and Italy, Worthington Co., New York 1891, pp. 443.

[10] Op. cit., p. 402 e ss.

[11] Non è chiaro il riferimento all’alto ufficiale (“the chief of staff of Italian army”, nel testo originale) che fece da tramite, ma dal brano sembra dedursi che l’appuntamento fu preceduto da una lettera di presentazione di un generale.