Meuccio Ruini Alessio Pizziconi

Ricorrono quest’anno 140 anni dalla nascita di Meucci Ruini (1877-1970). Ce lo ricorda un volume uscito qualche tempo fa che potrebbe ben figurare senza alcun dubbio tra le basi manualistiche di qualsiasi corso di educazione civica, materia di strettissima attualità alla luce del recente dibattito che ha caratterizzato la scena politica italiana. Una nazione che, nonostante l’evidente situazione attuale, ha dato i natali a grandi statisti del calibro di Meuccio Ruini. Di fronte alla mediocrità e all’arrivismo che l’odierna società parrebbe esaltare, risulta quasi un dovere ricordare la figura di Ruini che “vissuto modestamente, non ambiva alla ricchezza, il denaro e il benessere non rappresentarono per lui altro che una tranquilla sussistenza. Il suo orgoglio era quello di aver avuto all’università di Bologna, presso la facoltà di Giurisprudenza, tutti trenta e lode, ad eccezione di un trenta grazie alla sua “solita tecnica” di non imparare a memoria le dispense, ma di aggiungere qualcosa d’altro” come dice nei suoi ricordi.

Il libro – La costituzione della Repubblica Italiana: appunti (Roma, Bulzoni Editore) oltre ad essere un meritato riconoscimento degli sforzi profusi fino agli ultimi anni dall’ex presidente della Commissione dei 75, appare un doveroso tributo ad un uomo tanto autorevole quanto ancora poco conosciuto, almeno rispetto ad altri “padri della patria” e il cui pensiero democratico e riformatore risulta ancora attuale. Sempre deciso assertore del principio della sovranità popolare, Ruini non venne mai meno ad una alta concezione della democrazia né accettò ambigui compromessi che ne avrebbero svilito il significato più profondo. I molteplici incarichi amministrativi, politici, giuridici e governativi vennero sempre ricoperti nella profonda coscienza del suo ruolo pubblico al servizio dello Stato e della società. Nella veste di presidente della Commissione dei settantacinque, seppe far valere la sua vasta esperienza politica ma soprattutto la sua riconosciuta competenza nel campo del diritto pubblico e dell’economia, frutto di studi coltivati sin dagli anni dell’università. Come funzionario pubblico percorse una rapida carriera all’interno della pubblica amministrazione fino a diventare nel 1912 direttore generale dei servizi speciali per il mezzogiorno e poi a 36 anni, consigliere di Stato. A causa del suo antifascismo, nel gennaio 1927 venne espulso dal Consiglio di stato e di li a poco gli furono impediti l’esercizio dell’avvocatura e l’insegnamento. Iniziò quella che egli definì “una vita di esilio in patria” che terminò nel 1944 quando dopo la liberazione di Roma Ruini entrò nel governo di unità nazionale come ministro senza portafoglio. Carica che lasciò ben presto, quando si rese conto di essere stato escluso dal dicastero del Tesoro per meri giochi politici, pur avendo già ampiamente dimostrato la sua caratura.

Inserito nel luglio del 1946 nella commissione dei settantacinque dell’Assemblea Costituente ed eletto suo presidente, Ruini svolse un’instancabile quanto efficace opera di mediazione politica, dando un importantissimo contributo all’elaborazione del testo della Costituzione. Il suo contributo si rivelò fondamentale nella determinazione dell’impianto generale della Costituzione ma anche nella definizione di alcune questioni specifiche: per Ruini la democrazia è una conquista mai definitiva che gli uomini devono essere in grado di realizzare attraverso l’educazione alla partecipazione politica nelle forme e nei limiti indicati dalla legge. Essa non può che essere affermata e realizzata sulle basi del lavoro, che si pone quale forza propulsiva di ogni società formata da uomini liberi.

Durante tutta la fase costituente, le priorità di Ruini furono quelle di arrivare a norme chiare e solide, capaci di rappresentare adeguatamente la base giuridico-politica sulla quale l’Italia avrebbe dovuto costruire le grandi sfide che l’attendevano. Quasi impossibile non vedere il senso di responsabilità nella scelta di accettare la scomodissima presidenza del Senato, quella che diresse i lavori parlamentari nel 1953 in un clima di fortissima conflittualità, la stessa che provocò allo statista emiliano uno sconsiderato tentativo di dimenticanza effettuato negli anni successivi. Una vicenda che lo stesso Ruini definì, come è noto, la sua “via crucis” ed a conclusione della quale egli ebbe ad affermare “ho salvato il Parlamento, ma sono un uomo finito”. Anche in questo emerge quel suo “spirito di servizio” che costituisce forse l’espressione oggi più abusata e farisaicamente sbugiardata e che invece, per uomini come Meuccio Ruini, conserva l’autenticità del suo significato. Un’autenticità che solo chi è disposto a rischiare con la testimonianza concreta può far vivere.

Uno statista esemplare, uomo di studio e contemporaneamente del fare, che si mosse sempre in difesa dello Stato di diritto, basato sulla sovranità popolare, sulle libertà fondamentali degli individui, sulla legalità, sulla separazione e collaborazione dei poteri, sulla cooperazione e solidarietà tra le persone, e che cercò indefessamente fino agli ultimi giorni della sua vita di adeguare le istituzioni ai tempi che mutano, senza rinunciare mai ai propri valori e principi fondamentali. “Per agire è necessario dare rilevante, se non decisiva, importanza al passato, mentre lo sforzo e lo scopo deve inevitabilmente essere l’azione di domani”.